Home Nazionale Barilaro: “Professione fotoreporter? Abilità nel raccontare per trovare l’introvabile”

Barilaro: “Professione fotoreporter? Abilità nel raccontare per trovare l’introvabile”

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Roma, 27 lug. (Labitalia) – “La qualità più importante del fotoreporter è il talento giornalistico, l’abilità di raccontare e, quindi, fotografare i fatti in senso stretto, l’abilità di scavare fino a trovare l’introvabile. Non rimanere mai fermi alla superficie, ma cercare, anche a discapito di se stessi, quel punto di rottura, quella crepa. Diversamente, è meglio non fotografare. Ci vuole quindi intuito, studio ma anche tantissima passione per questo, che io lo chiamo mestiere, non lavoro”. Lo dice, in un’intervista a Labitalia, Francesco Barilaro che, a settembre, nell’ambito del ‘Photofestival -Attraverso le pieghe del tempo’ di Anzio, riceverà un riconoscimento per ‘Giornalismo come impegno civile’.
“Qualunque ‘racconto’ -chiarisce- ha un senso se serve a chiarire certi dubbi, se serve a ristabilire la verità. Perché, se riesci a scattare una fotografia che spiega quello che sta succedendo, ci sono milioni di persone che la vedranno e capiranno quello che sta succedendo. E tutto questo non è poca cosa, ha un grande valore”.
“L’unico consiglio che posso dare -sottolinea- a chi voglia intraprendere questo mestiere è quello di lavorare su progetti personali, progetti fatti di approfondimento, ricerca e cura del dettaglio. Con i lavori personali il giovane fotoreporter può capire come fotografare e comprendere come migliorarsi ma sempre seguendo le linee di verità, onestà e rispetto”.
“L’avvento del digitale -chiarisce- ha fatto emergere una massa di persone che di colpo hanno vestito i panni del professionista, persone che, attribuendo un valore esclusivamente emotivo, continuano a regalare il proprio lavoro, procurando danni a tutti coloro che vivono con la fotografia; colleghi che hanno investito tempo, risorse e soldi per quel mestiere”.
“Nel fotogiornalismo, così come nel giornalismo, cambiano gli attori – avverte – ma il risultato è quasi sempre lo stesso. In Italia, la figura del reporter non è mai stata considerata e il fotogiornalismo è diventato ininfluente perché i media hanno smesso di fare informazione, soprattutto una certa carta stampata”.
“E poi gli stipendi -spiega Barilaro- oggi, se ti va bene, vieni pagato a quattro mesi fatturando tutto con tariffe da fame e ci sono giornalisti della carta stampata che consentono di essere pagati a 2 euro a pezzo; poi ti guardi in giro e vedi che c’è gente che per uno scatto su Instagram guadagna dai 5.000 ai 15.000 dollari a patto che il prodotto dell’azienda si veda bene: la nuova frontiera del product placement. In tutto questo circo, chi ne paga le conseguenze sono i bravi fotoreporter e il fotogiornalismo serio”.
“Credo che oggi -sottolinea- si pubblichi più di prima, ma l’informazione non è negata; invece è ‘annegata’ usando un gioco di parole, in un mare di immagini e parole, nelle quali si è perso l’input documentario e soprattutto estetico. E’ come se manchi l’esigenza di creare un ponte tra la persona e la realtà. Fortunatamente, ancora qualcuno resiste e nel campo del fotogiornalismo ci sono colleghi (soprattutto italiani) che lavorano affinché ci sia informazione seria fatta di approfondimento conservando il valore storico e culturale della fotografia come racconto del mondo. Anche nel giornalismo della carta stampata qualcuno resiste”.
“Sono diverse le esperienze che mi porto dentro: credo che non esista una storia o un’esperienza -ammette Francesco Barilaro- che mi abbia segnato più di altre; forse l’ultima, cronologicamente parlando, l’esperienza in trincea con le donne curde che combattevano contro l’Isis, probabilmente perché erano donne, donne di cui pochi parlavano; perché erano protagoniste di una resistenza silenziosa e composta; donne discriminate e quotidianamente attaccate dalla Turchia di Erdogan e nell’indifferenza di un’Europa resistevano e morivano contro un nemico che doveva essere nemico di tutti”.
“Donne straordinarie -rimarca- che preparavano il cibo per i loro figli e poi imbracciavano il fucile per difendere le città. Ma, ripeto, non esiste una storia più o meno significativa, così come non esiste una fotografia più importante di un’altra, sarebbe come chiedere a una madre quale figlio preferisce, che probabilmente c’è ma non lo dirà mai”.