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Won’t get fooled again dei The Who

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Won’t get fooled again dei The Who

LA MUSICA CHE GIRA INTORNO

Paesaggi Musicali Settimanali a cura di Roberto Fiorini

 

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Gli Who sono una rock band britannica nata a Londra nel 1964 e formata da Pete Townshend, Roger Daltrey, John Entwistle e Keith Mooon.
Attualmente solo due dei fondatori sono ancora in attività, Moon e Entwistle sono morti.
Gli Who sono considerati una delle rock band più importanti ed influenti di tutti tempi ed hanno venduto oltre 100 milioni di dischi in tutto il mondo.
Da qualcuno sono considerati esponenti del proto punk, insieme a Ramones , Sex Pistols e Clash, anche se non tutti concordano con questa classificazione in quanto la band appare più vicina al rock che al punk.
Dopo la scomparsa del batterista Moon nel 1978 e del bassista Entwistle nel 2002, nella band entrano Pino Palladino al basso e Zak Starkey, figlio di Ringo Starr alla batteria.
Gli Who sono classificati alla 29ma posizione nella classifica stilata da Rolling Stone relativa ai 100 migliori artisti o band di tutti i tempi.
Il loro quinto disco, pubblicato nel 1971, si intitola Who’s Next e ed unanimamente considerato uno dei migliori dischi rock mai prodotto ed autentica pietra miliare della storia del rock.
Won’t Get Fooled Again è l’ultima traccia di quello che giustamente è considerato il capolavoro degli Who, un classico del rock ma anche una canzone che, nonostante il suo andamento da inno, porta un messaggio fortemente pessimista.
Il brano inizia con il suono quasi ipnotico di un organo al quale successivamente si uniscono la chitarra e a seguire il basso e la batteria.
Per comprendere a fondo il significato del testo occorre provare a raccontare il ruolo che la canzone svolge nel progetto originale, l’opera rock Lifehouse, un mix di rock e teatro, che però non vede mai la luce.
Pete Townshend decide che alcune canzoni scritte per quel progetto vengano inserite in due album: Who’s Next e Who Are You.

Won't_get_fooled_againLa canzone narra la disillusione di un rivoluzionario.
Dopo l’entusiasmo iniziale post ’68 affiora il timore verso i nuovi potenti che si comportano come i vecchi imbracciando le armi.
Gli slogan di moda soltanto qualche anno prima sono rimpiazzati da nuove parole d’ordine, ma nella sostanza niente è cambiato.
A Pete Townshend non rimane che suonare la chitarra.
Won’t Get Fooled Again con il riff furioso di Pete Townshend e la batteria martellante di Keith Moon, rivoluzionari di per sé, è un invito a diffidare dai predicatori della rivoluzione, colore che arrivati al potere, si comportano esattamente come gli altri.
A volte le dichiarazioni degli altri artisti nei tuoi confronti rendono la misura della tua grandezza.
Andiamo, chi non ascoltava gli Who negli anni sessanta?” ha dichiarato Patti Smith.
Eddie Vedder, che da leader dei Pearl Jam non ha mai rinnegato l’influenza degli Who sulla band, ha dichiarato che probabilmente gli Who “rimangono la più grande live-band della storia della musica ”.

Lo stesso Bruce Springsteen ha omaggiato più volte la band britannica, eseguendo cover infuocate durante i propri live.
E pure Joey Ramone espresse la propria ammirazione per i quattro inglesi, avvalorando la tesi che in un certo modo tutta la punk-era abbia un grosso debito di riconoscenza nell’attività di Townshend e soci, se non altro a livello di verve distruttrice delle convenzioni prestabilite.
L’album Who’s Next pesa come uranio sulla storia del rock, e diventa centro gravitazionale e metro di paragone per qualsiasi band a base di chitarre distorte e batterie picchiate come ne andasse della vita stessa.
Won’t get fooled again, incazzoso monito a tenere d’occhio i leader delle idee di cambiamento e il mito stesso di rivoluzione, conferma che la rivolta popolare ha da sempre un fascino magnetico nella musica.

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L’idea che il popolo, somma delle singole persone spinte da esigenze comuni, si ribelli ad un ordine costituito, deponendo dittature, sollevando re, cambiando la storia di una nazione, ha un impatto emotivo esaltante, tanto da ottenebrare la logica.
Purtroppo, con somma delusione, è facile constatare che nessuna rivoluzione è mai stata di inequivocabile dominio popolare, inteso come entità autoregolante senza leader, né guide, né interessi personali.
Ogni tentativo di rovesciare il paradigma in vigore, sostituendolo con un altro ordinamento sociale ed economico si è sostanzialmente risolto con la promulgazione di un altro paradigma.

Di fatto, una nuova classe dominante ha sempre sostituito la precedente, utilizzando il malcontento popolare come grimaldello per destituire il passato ed accumulare potere, e il fatto che ci si possa riconoscere ancora oggi in un canovaccio del genere non è per nulla consolatorio.
Won’t get fooled again si apre con un sintetizzatore, davvero sovversivo, lo stesso sintetizzatore tra l’altro che apre la prima traccia, la mitologica Baba O’Riley, e che in questo pezzo si stende come un tappeto per tutta la durata, riempiendo come non mai il suono.
Alla batteria, Keith Moon abbatte per quasi nove minuti la propria furia su tom e crash assortiti, con una interpretazione straordinaria.
Si comprende come mai sia considerato assieme a John Bonham il miglior batterista della storia del rock.
La ritmica di Townshend porta a scuola ancora oggi pletore di chitarristi con il ciuffo, mentre il basso di Entwistle meriterebbe un ascolto per così dire isolato, cercando di disconnettersi dall’armonia del pezzo per captare ogni singola variazione.
Roger Daltrey aggredisce il brano dal primo istante con la sua grinta, esprimendo al meglio uno dei testi più significativi di Townshend.
Nessuna rivoluzione è esente dal potere, ci dice Pete, ed è il potere il vero nemico.
La chiave è tutta qui.
E forse quel sintetizzatore di fondo è lì per questo, martellante, ipnotico, ossessivo.
L’urlo finale di Roger invece è liberatorio, vitale.

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Forse avevamo tutti ragione a sedici anni, quando pensavamo che il mondo fosse una merda e andasse cambiato, e la nostra rabbia, il nostro malcontento passava attraverso il sudore dei salti ai concerti e i ritornelli cantati alla luna, nella rivoluzione del rock che ci insegnava a ribellarci.
Meglio delle rivoluzioni che abbiamo conosciuto poi, che ci hanno insegnato purtroppo a rassegnarci.
La canzone è stata usata come sigla di apertura della serie televisiva CSI – Miami.
Townshend invece negò il permesso di utilizzarla alla fine del documentario di Michael Moore Fahrenheit 9/11 del 2004, considerato un giornalista poco credibile e dedito alla propaganda.

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