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Arezzo e la geografia degli affetti

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Arezzo e la geografia degli affetti

La città è una narrazione. Voglio dire che è possibile riconoscere nelle rappresentazioni che incontriamo lungo il cammino, tracce, ricordi, dimenticanze o segni tangibili dello spazio reale che vediamo ogni giorno. Quando se ne cercano le storie, non si trova né una città ideale né la sua decadenza.

Di solito si trova una geografia “affettiva” che un antropologo francese che amo molto come Michel de Certau accompagnava ad una frase che mi è sempre rimasta impressa. Coi suoi modi sobri ed eleganti, lui diceva che quando i racconti di una città scompaiono, si verifica una vera e propria perdita di spazio che costringe l’individuo a regredire. Mi fa venire in mente che se non ci raccontiamo, il nostro spazio vitale diminuisce e noi torniamo indietro procedendo a ritroso sia dal punto di vista intellettuale che emotivo.

Una specie di amabile cemento!

 

Quando allora si dirà qualunque cosa sulla città, ci si dovrà ricordare che un borgo di provincia così come un quartiere della metropoli sono stati tirati su anche con elementi impalpabili, non sempre visibili ma che spesso sono in grado di fungere da vero e proprio collante. Questo legame invisibile è fatto dei passi, delle parole, dei progetti e delle tracce di chi vi ha abitato nel tempo. Una città si fonda sul clima che vi si respira.

È il risultato delle relazioni e dei modi della convivenza, più che sui suoi edifici storici. Una città è fatta di oggetti ma anche di segni; di edifici ma anche di storie; di orizzonti ma anche di memoria oltre che di strade e di cielo. Se ci facciamo caso, ogni città è tessuta dalle infinite narrazioni che via via hanno accompagnato eventi e trasformazioni, dai tragitti personali fino alle vicende collettive. Si può camminare per la città tentando di leggerla come si fa di fronte a un’opera d’arte.

l’arte non si dà se non c’è chi la guarda

 

Partirò quindi dalla convinzione che ormai ha fatto storia, suscitando dibattiti e forti opposizioni, che suona più o meno così: una pittura, una scultura o un paesaggio non esistono di per sé. Prima di parlarne o di giudicarli come tali cioè, si dovrà riconoscere in essi come e quanto i sentimenti e, se si vuole, le ricezioni passate abbiano trasformato la cosa di cui si parla. Insomma, che l’arte non si dà se non c’è chi la guarda e dunque anche questo paesaggio è frutto delle trasformazioni del pensiero. Anzi, si potrebbe dire che ciò che rende un territorio fondamento di un’identità culturale è proprio la componente umana soggettiva ed immateriale.

Ovviamente non sono la sola a dirlo: ho al mio fianco un’intera generazione di storici dell’arte, paesaggisti, architetti e urbanisti che ci assicurano che il paesaggio, specie quello urbano è come un insieme di universi paralleli, un complicato fenomeno di coesistenza in cui la spazialità orizzontale, quella per capirsi, che fa convivere cose molto diverse nello stesso momento, si fonde con una dimensione verticale, diciamo storica. Quella dimensione che registra le tracce dell’interazione tra ambiente e società che non ci appartengono più e che infatti definiamo storia passata.

La città è quella che abbiamo in testa

 

Leggendo tutte queste componenti, il paesaggio urbano diventa quel che sappiamo già: una costruzione della nostra mente o una vera e propria un’operazione culturale. Dunque è facile pensare che nella nostra idea di città ci sia una fortissima componente personale che ci fa registrare come pittoresco quello scorcio del vicolo di Marcianello perché in quel momento sono state messe da parte le nostre fragilità. Che ci permette quell’apertura emotiva necessaria al lasciarsi meravigliare dalle grottesche nelle facciate di via Cavour che non ricordavamo così ben fatte, aprendoci a relazioni gratificanti con ristoratori e commercianti che si trovano sotto.

Quella componente emotiva che ci ricorda il portone dietro al quale abbiamo scambiato confidenze o che proprio lì, nella strada di casa nostra ci farà vedere relazioni basate sulla collaborazione e il dialogo semplicemente perché siamo felici. Allora anche la piazza coi tavolini fuori e l’insegna improvvisata del fruttivendolo – ieri fastidiose – daranno oggi un senso utile a orientare le scelte comunitarie in materia di conservazione e di valorizzazione. È così che l’ambiente urbano entra nelle retoriche politiche e nei nostri orientamenti etici, diventando quello che noi chiamiamo “senso del luogo”.

Insomma c’è una fitta rete di connessioni fra il come ci muoviamo nello spazio di Piazza Grande ad esempio, e i nostri processi mentali o le nostre concezioni sul chi siamo. Il modo con il quale la società ha concepito le case o le strade ci dice il ruolo della storia locale e ci racconta ovviamente, anche la relazione tra spazio e potere. Dunque spero sia evidente che non sto parlando di una dimensione turistica, ma di come ogni slargo, piazzetta o via che attraversiamo diventi un nodo significativo per la rete di microesperienze che chiamiamo vita.

L’immagine di una città è sempre mutevole: cambia nel corso del tempo, anche se la cosa piace poco a chi vuole averla ferma in posa per venderla meglio. Proviamo per un po’ ad escludere dal discorso questi venditori e distinguere non solo le testimonianze di lirica bellezza, ma tutto ciò che è in grado di distinguersi chiaramente con un’identità. Qualsiasi essa sia.

Un paese ci vuole

 

Quale è l’identità aretina? Questo è il tema che intendo affrontare. Vi chiedo di rifletterci su. Purtroppo, questo non è soltanto un problema che interessa gli accademici, coloro che creano cultura, nonché chi la consuma: si tratta anche di una questione controversa, potremmo persino dire esplosiva, per i politici. Comunque importantissima anche per quei giovanissimi che qui stanno crescendo e ai quali riporto le parole di Cesare Pavese quando diceva: “Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via”.

Per quanto mi riguarda, condivido pienamente quel discorso postmoderno che sancisce la fine dei veri viaggi e la riduzione dei luoghi all’insignificanza. Insomma è chiaro per tutti che il profondo cambiamento che la società dell’immagine ha prodotto nel modo di percepire le città trasforma il viaggio in uno pseudoevento da cui ci si aspetta, senza alcun incomodo, di provare emozioni preconfezionate. In un contesto di spostamenti generalizzati molte cose delle città che visitiamo ci passano inosservate, ma la cosa più grave è che gli spazi della città d’altro canto, si sforzano moltissimo di coincidere con l’orizzonte d’attesa del visitatore e perciò si adeguano agli stereotipi dell’immaginario comune, precipitando in un’opacità assoluta, difficile da raccontare.

Ma quanto “vale” la cultura?

 

Ecco, l’invito di Arezzoweb che accolgo volentieri è quello di raccontare come per anni quando si voleva dare un forte argomento alla cultura, si è avuta la tentazione di dire che la cultura produce l’x% del PIL totale di un paese. Da un certo punto di vista è vero, ma questo x% è anche molto sottovalutato e non tiene di conto di quel collante di cui parlavo poco fa. Questo modo “commerciale” di ragionare passa purtroppo il messaggio che, grande o piccolo che sia, la cultura è un settore come gli altri.

Per cui, una volta che si è accettata questa idea, di solito ci si mette a litigare se vale il 4% o 2%. Alla fine, tutto quello che non risponde alla capacita di produrre valore aggiunto finisce per essere messo in disparte semplicemente perché “non produce denaro”. Oggi invece, le grandi capitali europee hanno capito che la cultura potrebbe fare molto più di quello che si immaginava. Basta cambiare totalmente prospettiva e interrogarsi su cosa la cultura può fare. Insomma, chiediamoci: quali sono i grandi problemi? L’invecchiamento della popolazione europea, la crisi dei migranti, le nuove povertà o la concorrenza dei paesi emergenti? Bene, se questi sono i problemi bisognerà vedere come la cultura può fare la differenza.

Se il problema è la salute degli anziani o quella dei giovani perennemente chiamati all’acquisto, si dovrà andare a vedere cosa può fare la cultura per migliorare la salute di grandi e piccoli e così con le varie problematiche sociali. Insomma, in pieno post covid si tratterà per tutti di partire/ripartire dai luoghi, dai contesti abitati e vissuti insieme per colorarli di narrazioni proprie e degli altri e per costruire memoria comune intorno alle azioni e alle espressioni quotidiane di tutti noi. A chi sta crescendo e a tutti noi che amiamo Pavese mi sento di dire una cosa non così ovvia: un paese “ci vuole” forse anche per imparare a partire. Perché alla fine, per andarsene via – se si vuole – bisogna sapere da cosa ci allontaniamo e non correre il rischio di fuggire e basta.

 

Matilde Puleo