Home Cultura e Eventi Cultura Arte come pratica. Suggerimento uno: sperimentare l’arte di trasformarsi davanti all’obiettivo

Arte come pratica. Suggerimento uno: sperimentare l’arte di trasformarsi davanti all’obiettivo

0
Arte come pratica. Suggerimento uno: sperimentare l’arte di trasformarsi davanti all’obiettivo
Hannah Cullwick e Arthur Munby, “vestita da uomo”, 1860 Shifnal, UK

Sono ormai trascorsi oltre due secoli da quando la prima fotografia sconvolse e superò gli status e i ruoli sociali stabiliti.  Accanto ai tantissimi ritratti ufficiali comparvero cioè, immagini particolari e curiose, frutto di sperimentazioni concettuali nate in contemporanea ma con altre finalità.

Queste erano le immagini create col dono della prefigurazione, come dirà poi la meravigliosa Diane Arbus nel corso del XX secolo.  Appannaggio di ogni artista autentico, questo modo di usare la fotografia implicava il superamento delle contraddizioni più gravi dell’epoca e la necessità di orientare il pensiero dei contemporanei verso urgenze “nuove” come quella di scostarsi da concetti di “normalità” troppo rigidi, di liberarsi dalle imposizioni sociali, dal valore assegnato al denaro e dalle convenzioni.

In materia di creazione artistica cioè, all’Ottocento importa qualcosa che potrebbe essere ancora fonte d’ispirazione, ovvero lasciare che l’immaginazione sfugga a qualsiasi forma di costrizione. L’imperativo è quello di cercare di non imporle alcuna falsariga nascosta sotto falsi pretesti.

È così che moltissimi artisti in pieno Ottocento si potevano permettere di giocare con la propria immagine, cercando il modo per vederla “libera” e non condizionata, semplicemente vestendo abiti impensabili o provando a essere donne travestite da uomini e viceversa. Alcuni si sperimentavano con le personificazioni mitologiche, altre coi sogni proibiti e le potenzialità inespresse.

Quasi tutti cercavano gli “attraversamenti” e le sfumature identitarie con risultati che oggi vengono valutati sia da chi studia la fotografia, sia da chi si occupa di performance sia da chi cerca in esse i segni di una generalizzata crisi d’identità.

Si potrebbe dire che la dimensione del corpo e delle sue azioni, lette attraverso la vita di alcune donne (sguattere, illetterate, madame o artiste poco importa), che operarono tra la fine dell’Ottocento e primo Novecento ci permettono di vedere come fossero chiare anche all’epoca le potenzialità performative della fotografia.

Con il cinema forse è perfino più evidente: a una prima occhiata, vengono in mente l’icona di Marlene Dietrich, vestita da uomo e fotografata dall’immenso Eugene Robert Richee o lo spassoso duo Tony Curtis e Jack Lemmon in “A qualcuno piace caldo” di Billy Wilder, con quel loro modo garbato di parlare di sentimenti, anticipare le mode e ritrarsi in altre vesti.

La cosa interessante però è che già nei primi Atelier fotografici della Parigi di fine Ottocento, moltissimi curiosi si fermano a guardare ma altrettanti sconosciuti, artisti in erba o persone con delle velleità e tanti intellettuali raffinati, cercano di fermare l’attimo, di cogliere qualcos’altro, travestendosi da quello che ambiscono, temono o vogliono essere.

La nuova arte della fotografia – quella che faticava a trovare una collocazione e che per tanto tempo si giocò la carta dell’equiparazione con la pittura -, era più democratica; se non altro perché è disponibile, non elitaria e sempre in grado di assecondare la voglia di trasgressione. Dunque in questo limbo tra arte e non arte, liberata da ogni pregiudizio, la fotografia era lo strumento in grado di fare vedere realmente sé stessi.

Ed ecco quindi che timidi signori o giovani rampolli sperimentavano la propria sessualità coinvolgendo ragazze povere come Anna Kullwick, chiedendo loro di travestirsi in vario modo e soprattutto da uomo.

Esattamente come facevano anche le signore della borghesia parigina quando, con quello spirito anticonvenzionale tipico della bohémien, andavano negli atelier dei fotografi per trasformare sé stesse in icone.

Non ci interessa se barba e baffi tradiranno la realtà così come non faremo molto caso a quei visi sporcati da finte colorazioni scure a imitazione di barba e baffi impossibili: la fotografia saprà andare oltre, stuzzicando quanto basta l’immaginazione.

Tutti ricordano dai libri di storia delle medie, la Contessa di Castiglione, cugina di Cavour e abilissima seduttrice di Napoleone III. Con lei abbiamo i primi esperimenti di fotografia intesa come diario dei suoi continui travestimenti.

I suoi modelli andavano in molte direzioni: eroine del passato, figure di sante, immagini ieratiche di suore, raffigurazioni della Madonna e i suoi stessi piedi nudi. Ciò che la nuova diva chiede espressamente al suo fotografo è di sottolineare le sue doti attoriali e l’abilità di interpretare scenari diversi. Una donna, una spia ma soprattutto una vera influencer, capace di sedurre e affascinare chiunque le capitasse a tiro.

Se poi, facendo un vertiginoso salto nel tempo, andiamo agli anni Settanta del Novecento vedremo come moltissime artiste assegnarono alla fotografia compiti ben più complessi e coloro che la praticarono usarono parole forti e pregnanti come intimità, riservatezza, immediatezza, pudore, autosufficienza e perfino autodeterminazione politica.

Dunque eccolo qui il cosa può insegnarci ancora questo mettersi a nudo davanti alla macchina fotografica: costruire il nuovo, liberarsi dal passato e superare i limiti del proprio codice genetico.

Judy Weiser, la famosa pioniera della fototerapia sostiene che le fotografie contengono sempre storie. Non c’è bisogno di fotografi professionisti o meriti artistici: ogni scatto racconterà naturalmente le proprie storie e lo farà con l’immediatezza che le compete.

Le fotografie così concepite racconteranno quell’autoscatto o quel ritratto per il quale ci siamo messi in posa e risponderà a chi si impegnerà a “tradurle” o ad assegnare loro significati. Ci diranno da dove arriviamo emotivamente e in quale realtà potremmo trovarci se solo lasciassimo andare le nostre connessioni inconsce.

Non appena ne avremo scattata una, il passo successivo è quello di ascoltare tutto ciò che passa nella mente. Bisognerà guardare con attenzione i messaggi visivi consapevoli ma anche quelli che non erano stati previsti. In seguito bisognerà dialogare con l’immagine, ponendole delle domande come se fosse un’altra persona, bisognerà considerare le risposte e vagliare i cambiamenti immaginati o i diversi scenari suggeriti.

Infine non sarebbe male andare a vedere che cosa ci suggeriscono le immagini dei fotografi più bravi e magari cercarci immagini migliori di noi su ispirazione di questo o quell’artista e di lì in poi continuare il viaggio. Del resto è facile da dire: la foto è carta con un’emozione spalmata sopra!

di Matilde Puleo