Home Cultura e Eventi Cultura La mostra di Ottone Rosai a Montevarchi, Palazzo del Podestà 25 ottobre 2020 – 31 gennaio 2021

La mostra di Ottone Rosai a Montevarchi, Palazzo del Podestà 25 ottobre 2020 – 31 gennaio 2021

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La mostra di Ottone Rosai a Montevarchi, Palazzo del Podestà 25 ottobre 2020 – 31 gennaio 2021
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Le ricerche in preparazione della mostra su Ottone Rosai a Montevarchi, dedicata ai capolavori realizzati da fra le due guerre, curata da Giovanni Faccenda, offrono continuamente risultati inediti e nuovi motivi di interesse.

Fra questi il ritrovamento e la corretta identificazione di un straordinario dipinto del 1932 “Baroncelli” (anch’esso, come altri in mostra, già presente nella storica rassegna di Palazzo Ferroni del medesimo anno) a lungo e in varie pubblicazioni presentato erroneamente come “Paesaggio”, ignorando, dunque, la fondamentale indicazione autografa al verso del quadro, a carboncino, dello stesso Rosai.

La mostra nasce proprio dalla volontà di superare una lettura talvolta superficiale e antiquata dell’opera di uno dei maggiori artisti italiani del Novecento, apprezzato da Francis Bacon che nel 1962, durante un’intervista televisiva, lo indica come l’artista che aveva maggiormente attirato il suo interesse:

«Non esito a fare il nome di Ottone Rosai, uno fra i più grandi pittori di questo secolo: soprattutto gli autoritratti e i nudi che egli ha dipinto, gli uni all’inizio, gli altri alla fine degli anni Quaranta, hanno generato in me profonde riflessioni e non pochi trasalimenti».

In epoca più recente Georg Baselitz ne è ammiratore e ha acquistato opere dell’autore toscano a dimostrazione di quanto la pittura di Rosai sia espressione di una voce contemporanea.

Nel prezioso catalogo che accompagna la mostra, il professor Faccenda documenta, con una scheda esauriente, ogni particolare relativo all’ eccezionale ritrovamento de “Baroncelli”, aggiungendovi anche un disegno preparatorio che smentisce la tesi del lavoro “en plein air” fino ad oggi conosciuta.

Nello stesso catalogo, inoltre, verranno pubblicate alcune bellissime foto professionali a colori di un Rosai in abiti borghesi così come non si era mai visto: sorridente anziché assorto e cupo, disponibile a lasciarsi catturare (persino mentre passeggia nella “sua” via San Leonardo!) dall’obbiettivo di un fotografo evidentemente amico.

Tra le molte altre sorprese che incessantemente si aggiungono a questo evento, che verrà inaugurato il 25 ottobre 2020, anche una “chicca” per appassionati, cultori e amanti dell’arte e della letteratura di Rosai: il “miracoloso” ritrovamento di un vinile nel quale Rosai, con la sua voce calda e coinvolgente, legge due brani della sua celebre raccolta di racconti “Via Toscanella”.

E le sorprese, come altro, potrebbero non essere finite qui.

La mostra in breve: organizzata dal Comune di Montevarchi, riunisce, nella storica sede di Palazzo del Podestà, cinquanta opere di Rosai, per metà disegni e altrettanti oli.

Tutti riferiti ad un momento preciso dell’artista: gli anni tra il 1919 e il 1932, il ventennio tra le due Grandi Guerre.

Ottone Rosai (Firenze 1895 – Ivrea 1957), uomo dalle travolgenti passioni, fu artista che scelse di leggere le novità del suo tempo alla luce della grande arte del Tre-Quattrocento toscano.

Informazioni utili

Apertura della mostra: dal giovedì alla domenica

giovedì e venerdì ore 15 – 19

sabato, domenica e festivi ore 10 – 20

Info: www.comune.montevarchi.ar.it tel. 055-91081

Facebook: Comune di Montevarchi

Twitter: @montevarchi

Instagram: incomunemontevarchi

Youtube: Video Montevarchi

Ufficio Cultura:

[email protected]

tel. 055.9108314-212

Ufficio Stampa del Comune di Montevarchi: [email protected] – tel. 055.9108245

In collaborazione con:

Studio ESSECI, Sergio Campagnolo tel. 049.663499 [email protected] (rif. Roberta Barbaro)

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Di seguito la nota di Giovanni Faccenda, Curatore della Mostra:

“«Mi tortura il pensiero di quell’ombra nascosta dentro di me, che ritrovo in certi paesaggi, nelle strade, e soprattutto al fondo di molti uomini.

Non avrò pace finché non l’avrò imprigionata nella luce della pittura.» Ad esprimersi con questa intensità è Ottone Rosai, in una lettera a Dino Caponi datata 2 novembre 1941.

A conferma, se ce ne fosse bisogno, della sua attenzione per tutto quanto riguardi le complicazioni sepolte negli abissi dell’anima, giunga a plasmare un’umanità nuova, destinata a restare come uno dei simboli più toccanti e autentici del ventesimo secolo.

Come non riandare, leggendo quelle righe di Rosai, al grido dipinto da Munch nel 1893,  simbolo di quel disagio esistenziale che avrebbe investito il Novecento.

In Rosai è il segno – deciso come un bisturi condotto dalla mano di un chirurgo – a rivelare, prim’ancora che il talento, la vocazione principale di Rosai: scavare dentro gli uomini. L’esercizio, complesso, ha un prezzo oneroso da pagare, che egli accetta senza alcuna esitazione, quasi fosse stato mandato da Dio sulla terra per addossarsi, in tutto il suo schiacciante peso, questa fatidica croce.

L’intensità con la quale l’urlo munchiano, a distanza di quasi trent’anni dalla sua prima manifestazione, riecheggia, ora, tra i ponti di Firenze, estendendo il contagio di un simile malessere ad altre latitudini, è resa da Rosai, con più intimi contenuti, nel suo sommo periodo (1919-1922), in capolavori quali Partita a briscola, Serenata, Trattoria Lacerba, Incontro in via Toscanella, Donne sulla panchina, Sotto la pergola, tutti ordinati all’interno dell’attuale mostra.

Fin da allora, l’urgenza più marcata dell’artista è quella di indagare quanto di davvero essenziale accomuni i suoi simili, nella trama di un destino, fatalmente avverso, che sembra risparmiare, giusto per una rara eccezione, solo qualche fortunato.

Rosai, in certe dichiarazioni, è persino irridente: «Gli uomini, specie i ben portanti, gli impettiti, coloro che vorrebbero dare a bere di chissà quale missione da svolgere nella vita, furono sempre i miei bersagli preferiti e fino a quando non ho potuto dimostrare la tragedia della loro presenza sulla terra per mezzo di un pezzo di matita, mi son divertito a pigliarli a sassate.»

La guerra, vissuta da protagonista in prima persona – come attestano gli encomi che ebbe a ricevere una volta tornato dal fronte –, pur segnandolo profondamente, non aveva in nulla modificato i caratteri distintivi di un’indole, la sua, ove continuavano a risiedere le passioni, i turbamenti e le inquietudini di sempre. Era diventato uomo in fretta, Rosai, al pari di una generazione. I tempi delle bravate, delle cazzottate e degli accapigliamenti, invece, svaniti da un pezzo.

Scriverà lui stesso in seguito: «Chiuso il periodo avanguardistico della giovinezza, chiusi i mondi del popolaresco del teppismo e nei quali mi portava coscienza ed esperienza d’artista, avvertivo chiaramente che l’artista aveva ormai da riordinare i frutti della esperienza e della partecipazione umana alla vita per maturarli nella trasfigurazione amorevole e razionale dell’arte. Ripresi contatto con ansia, con sforzo e con timore dei lapis e della tavolozza e soprattutto cercai di ritrovare in me quell’amore che sempre avevo portato per certe creature destinate a vivere come di nascosto alla stessa vita» (si veda, fra le opere in mostra, Fiaccheraio, Omino che prega, La vecchia, Il cieco e il chitarrista).

Qualcosa, nella sua più incisiva ritrattistica, comincia tuttavia a mutare sul finire degli anni Venti, allorché, con gli imponenti Giocatori di toppa del ’28, prende repentina consistenza una grandiosità monumentale che si ritrova in alcuni ritratti di contadini eseguiti fra il 1931 e l’agosto del ’33 nel nuovo studio di via di Villamagna (ma la serie prosegue almeno fino al ’38, quando egli dimora già da cinque anni in via di San Leonardo).

Come racchiusi in se stessi e vinti dalla disperazione gli erano apparsi i tipi che aveva inseguito in modo febbrile al caffè, due, tre lustri prima, ricreandoli, infine, in una dimensione catartica e persino religiosa, così schiacciati dalla vita e vittime di un morbo inestinguibile si mostrano, adesso, coloro che ritrae scegliendoli fra gli abitanti del luogo.

Il vocabolario dell’artista intanto si arricchisce di una parola: presagio (Al caffè, 1937; Paesaggio, 1939). Si consolida una poetica che richiama da vicino il pessimismo cosmico di Leopardi: tutte le creature viventi, e non solo gli uomini, sono infelici dalla nascita. Un sentimento idealizzato tenendo a pretesto case appartate, cipressi malinconici, strade in salita con la solita curva che piega verso il mistero dell’oltre (Rimaggino, 1932).

Ogni uomo rimane mistero da studiare, specchio nel quale scorgere la stessa torrida solitudine che aggrava il peso dei suoi giorni, l’infelicità, silenziosa, di una condizione vitale comune a molti, troppi: una smorfia di fatica che apparenterà, negli anni Quaranta, ritratti e autoritratti. Il male di vivere.

Un’ansia febbrile resiste simultanea in ogni parto espressivo: riecheggia, inesauribile, nel vibrante rapporto che suscitano i dipinti raccolti in questa mostra. Oggi come allora. A dispetto del tempo. Segni, come cicatrici, avuti in eredità per un amaro testamento.

La guerra, un’altra guerra – la seconda –, ancora più catastrofica, aggrava la sua rabbia con la sorte. Mentre l’Italia segue attonita il progredire di sviluppi inesorabili, nuovo fuoco ravviva dentro lui con vampa dirompente. Si svuotano caffè, osterie, case e strade: gli uomini riparano in rifugi d’occasione, stipati fino all’inverosimile. Uno spettro, quella calca, quella «carne da macello», che colpisce in tanti ritratti e autoritratti del periodo: diario sofferto originato da un’analisi sempre più esasperata.

Fondamentali, questi dipinti saranno soprattutto per Francis Bacon. Nel 1962, durante un’intervista televisiva presso il maggior canale d’informazione d’Oltremanica, alla domanda quale fosse stato l’artefice che avesse maggiormente attirato il suo interesse, egli rispose: «Non esito a fare il nome di Ottone Rosai, uno fra i più grandi pittori di questo secolo: soprattutto gli autoritratti e i nudi che egli ha dipinto, gli uni all’inizio, gli altri alla fine degli anni Quaranta, hanno generato in me profonde riflessioni e non pochi trasalimenti».”