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Cambiare vita. Il rifiuto di una vita fatta di sopravvivenza

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Cambiare vita. Il rifiuto di una vita fatta di sopravvivenza

Tutti parlano di cambiare vita. In questo 2021 per ovvi motivi, è diventata un’esigenza comune fin troppo evidente. Sappiamo che qualcosa dovrà cambiare anche se non sappiamo bene cosa.

È possibile allora che alcune parole facciano venire in mente situazioni che abbiamo studiato, descrizioni di momenti che riletti per caso, acquisiscono un sapore diverso. Sembrano parole dotate di una potenza espressiva maggiore. Una potenza che potrebbe essere condivisa proprio all’inizio di un anno come questo, così carico di speranze.

L’espressione cambiare vita – tanto per cominciare – non è nuova. Era lo slogan che artisti e intellettuali urlavano per le strade di Parigi cento anni fa, con una convinzione che ci commuove un po’. Ci commuove intanto, il fatto che esattamente nel ’21 del Novecento, tanti movimenti d’avanguardia iniziassero a denunciare la normale e borghese modalità di esistenza, per distinguerla dalla vita appassionata e multidimensionale alla quale bisognava ambire.

Cambiare vita avrebbe dovuto significare allora sentire di più, amare di più, sperare di più. La fede quindi, quella vera, totale e sincera, doveva essere consegnata alla vita. Doveva essere – dicevano – interamente votata, prostrata e genuflessa di fronte a tutte le dimensioni più fragili della vita. È lì che va riposta tutta la nostra e la futura fiducia.

Sto citando il padre del Surrealismo Andrè Breton quando – rivolgendosi a noi uomini e donne del futuro – diceva che per il rispetto di cui si parlava nel suo manifesto era intollerabile prima di tutto la mediocrità di tutto quel che porta a sottomettersi alla storia.

Non c’è dubbio che “cambiare vita” per loro fosse prestare ascolto alla dolce nostalgia di credere al mito di una società unitaria, dove la traiettoria individuale, anche del più umile degli uomini era indissolubilmente legata a quella cosmica, ma questo non significava assoggettarsi alla storia.

Secondo questa prospettiva anzi, ogni evento era un segno e ogni parola o gesto scatenava magicamente misteriose correnti di elettricità mentale che erano fuori dalla storia e dal tempo. L’avanguardia si poneva così, dietro l’orma furiosa che, dal Romanticismo a Dada, aveva fatto chiedere agli artisti di cambiare le cose, pretendendo di farlo prima di tutto rifiutandosi di vivere una vita fatta solo di sopravvivenza.

La ribellione romantica però – come tutti sanno – aveva lasciato il posto all’estetismo al Simbolismo e a quella manierata modalità di rappresentare a teatro la decadenza e la morte. Una parte della critica d’arte sostiene che la sanguinosa performance omicida della Grande Guerra aveva concretizzato le più macabre fantasie, mentre l’altra parte afferma con cinismo che milioni di cadaveri avevano solo rianimato rapidamente il gusto per la vita.

Sta di fatto che, di fronte alla guerra, anche la storia dell’arte si accorge che Dada non si era sbagliata!  Lo stesso Breton lo capisce nel 1922, quando in un suo scritto, concede al Dada l’idea che se non avesse fallito, avrebbe compiuto la giusta distruzione: “se la sua forza non avesse fallito, avrebbe ottenuto niente di meglio che distruggere tutto da cima a fondo”. (vedi “Littérature”n°5)

Nel pieno della guerra infatti (e dunque sto parlando del terribile 1917), Dada chiedeva sfacciatamente e confusamente, la distruzione globale dell’arte, della filosofia e della cultura, perché ciò che ritenevano disgustoso era il considerare queste discipline come sfere separate.  La coscienza sporca del riformismo surrealista lamentata da alcuni studiosi era proprio quella di essere diventato la testimonianza del progetto di una rivoluzione globale, che il movimento non seppe realizzare.

Rimaneva però un residuo; un’inezia sulla quale costruire un trampolino di lancio: la malinconia della vita quotidiana. Soltanto lei poteva essere il colpo di reni giusto per cavalcare l’altro mondo, quello dei sogni sempre carico di promesse.  Sogni però che in molti casi furono difficili da fare. Sogni contraddittori come il misticismo, il decadentismo e l’incubo della non-vita nella totalità delle cose umane. L’idea del suicidio come progetto negativo, finalizzato al paradosso di sopravvivere alla propria morte era uno di questi.

Se lo guardiamo con attenzione, il primo numero di “La Révolution Surréaliste” è piena di ritagli di giornale riguardanti il ​​suicidio. Era lo stesso nichilismo sul quale Dada riponeva le sue speranze per stimolare in noi la ricostruzione del sé e per un ritorno alla totalità spirituale.

Certo, gli anni Venti sono anni complessi. Basterà pensare al fatto che per Artaud, nel 1924, la speranza di una società senza classi da realizzare nel prossimo regno della libertà, moriva con lo smascheramento dello stalinismo. Breton allora cominciò a chiedere al suo gruppo di vivere il dramma dell’alienazione di tutti i giorni come una tragedia cosmica, una tragedia della mente che non aveva però alcun contatto con la realtà.

Oggi la denuncia surrealista dell’oppressione ci piace ancora moltissimo e l’aggressività del loro tono di voce non può che suscitare la nostra simpatia. D’altra parte, resta il fatto – a mio avviso – che questi giovani, si trasformarono di diritto in teorici e praticanti della rivoluzione della vita quotidiana, imponendosi di fare una guerra continua alle molestie della società borghese.

Giunti a questo punto, è chiaro che si stanno rivolgendo a noi quando dicono che conviene fare come Dada: mantenere ben dritto lo specchio di fronte al potere e inaugurare un atteggiamento “anti tutto” capace di coniugare in un’unica pratica la lotta contro ogni forma di oppressione e la difesa di ogni scintilla positiva scaturita dalla vita di tutti i giorni. Prima di augurarci buon anno, forse è il caso di augurarsi buon lavoro!

 

Matilde Puleo

 

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