Home Arezzo Quando Cezanne abitava ad Arezzo

Quando Cezanne abitava ad Arezzo

0
Quando Cezanne abitava ad Arezzo

A volte non solo le opere ma anche i loro interpreti, gli studiosi, o alcuni osservatori eccellenti entrano nella storia dell’arte e ne cambiano le forme. Succede perché questi intenditori si comportano come artisti essi stessi e usano la loro creatività per illustrare i costumi collettivi e raccontare i propri gusti personali, interpretando e determinando il significato di un’intera epoca.

Agli inizi del XX secolo ad Arezzo, Piero della Francesca è l’artista col quale moltissimi studiosi vogliono avere a che fare. Generazioni di critici, scrittori e intellettuali intenti a leggere il Rinascimento vengono attratti da questi affreschi così diversi da quelli che si trovano a Firenze o a Siena. 

L’americano Bernard Berenson ne è totalmente affascinato. Il critico d’arte più rappresentativo della cultura d’inizio Novecento cioè, ebreo nato in Lituania ma emigrato in America con la famiglia, è così appassionato da decidere di trasferirsi a Firenze nel 1890 presso la famosa villa I Tatti.

Dopo l’arrivo ad Arezzo, la sua lettura di Piero diventa immediatamente una specie di storia irriverente e rivoluzionaria del Quattrocento, convinto com’era della sua missione: studiare l’opera d’arte non limitandosi mai alla sola dimensione visiva e dunque non circoscrivendo l’analisi al solo aspetto stilistico o formale.

Il suo non sarebbe mai stato lo studio soggettivo del singolo conoscitore. Aveva bisogno di arricchire ciò che ammirava con lo sguardo, corredando il suo sapere con tutta un’altra serie di materiali. L’arte si studia osservando ciò che si ha intorno. Anche perché guardare è una delle cose più difficili da fare.

Berenson quindi scrive un libro su Piero che entra nella manualistica di storia dell’arte e diventa un saggio cardinale della critica d’arte in genere.  Da ottimo conoscitore (o connaisseur come si declina la parola intenditore in francese) Berenson insegue la bellezza che devìa dalle regole, quella nascosta e silenziosa.  Perfino dell’arte classica, Berenson apprezza ciò che è meno appariscente così come delle pitture medievali ama soprattutto le lumeggiature che inondano di luce quelle Madonne solo nelle intenzioni.
Lo studioso ammira e arriva anche a creare dei veri e propri parallelismi tra gli artisti, ampliando l’orizzonte della comprensione tanto per gli uni che per gli altri. Di quelli a lui contemporanei ama ovviamente, quelli la cui arte è nascosta e silenziosa: dunque Cézanne e un certo Degas tanto per fare qualche esempio.
Questo tipo di bellezza ricercata è secondo lui, preludio di un pensiero più raffinato e questo dato lo induce a pensare che quella nascosta sia la bellezza che ci fa dire della storia dell’arte che è una disciplina senza tempo.
Prova dell’eternità era ad esempio lo stupore che alcuni personaggi di Piero (come ad esempio l’uomo in secondo piano che si denuda nel Battesimo di Cristo attualmente a Londra) è in grado suscitare sempre uguale tra gli osservatori di tutte le epoche. Non solo. Il sottotitolo del libro spiega in poche parole tutto l’impegno di cui il critico voleva farsi carico: “Piero della Francesca o dell’arte non eloquente”.
Piero della Francesca – Battesimo di Cristo
Ci chiediamo dunque, dove coglie il critico questa dimensione? La sua risposta è secca e puntuale: nelle analogie fra Piero e Cézanne. Secondo lui la disposizione e il rapporto dei piani, così come la stessa capacità di far vedere l’energia vitale soprattutto nell’azione di polsi e nella disposizione delle caviglie delle loro figure rasentano la copia. Stesse identiche sono le modalità di concepire la tensione e distensione dei muscoli. Specie quando la figura si sforza o preme col piede.  Provare per credere.

A Berenson interessa molto inoltre, il fatto che Piero della Francesca sembri essere contrario alla manifestazione del sentimento. Non perché artista freddo e professionista calcolatore, ma per quello che il critico definisce un “bisogno di evitarlo”.

Il bisogno di evitare il sentimento dunque veniva interpretato come segno della sua volontà (diremmo noi oggi da “artista concettuale”) di essere quanto più possibile indifferente alla bellezza fisica.  Questa disattenzione per la bellezza appaiava a suo avviso Piero di nuovo a Cezanne. Entrambi gli artisti – diceva – erano sensibili al volume o al peso specifico delle strutture, dei corpi e dei volumi.

Questo impegno li portava ad investire lì tutte le loro energie, lasciandoli totalmente disinteressati al concetto di rappresentazione realistica o a quello ancor più illusorio delle sembianze.

Li univa inoltre, una certa moderazione e temperanza di carattere che li tutelava entrambi dal rischio di scegliere deliberatamente di occupare il proprio lavoro con ciò che è solo sgradevole, brutto o addirittura bestiale. In nessuno dei due vedremo mai un eccesso di espressione.

Nessuno dei due articola il corpo dei loro personaggi in modo eccessivo o fa loro storcere ilviso oppure le mani, come fanno invece negli stessi anni di Piero molti artisti tedeschi. Sia Piero che Cezanne inoltre considerano un errore quella quantità di espressione del corpo, specie quando esubera dall’azione richiesta. Insomma i tratti del viso non devono dire più del necessario perché lo sforzo è quello di parlare del carattere essenziale.

L’arte – diceva Berenson – è basata sulla realtà, ma vive indipendentemente da essa, senza guardare al trampolino dal quale si lancia nell’oceano dell’Essere.

 

Matilde Puleo