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Ictus celebrale, scoperta italiana

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Ictus celebrale, scoperta italiana

Per la prima volta un gruppo di ricercatori italiani individua una concreta possibilità di rimediare alla perdita cellulare alla base di malattie neurodegenerative acute (quali l’ictus o il trauma cerebrale) e croniche (quali la sclerosi multipla e il morbo di Alzheimer). La scoperta si basa sulla possibilità di sfruttare la capacità del cervello di auto-ripararsi reclutando cellule progenitrici immature, simili alle cellule staminali e ancora presenti nel cervello adulto, e “indirizzandole” a generare nuove cellule nervose.
Lo studio è stato coordinato dalla Professoressa Maria Pia Abbracchio, del Dipartimento di Scienze Farmacologiche dell’Università degli Studi di Milano e dal Professor Mauro Cimino dell’Università di Urbino, e ha coinvolto il Consiglio Nazionale delle Ricerche di Milano, le Università di Pisa e di Torino, il Centro Cardiologico Monzino di Milano e il Centro Neurolesi Bonino Pulejo di Messina. Cruciale il ruolo svolto dai collaboratori della Professoressa Elena Tremoli, i Dottori Paolo Gelosa, Luigi Sironi e Uliano Guerrini.
I ricercatori hanno osservato che dopo una lesione ischemica cerebrale alcune cellule circostanti alla zona lesa emettono una sorta di segnale di allarme che induce altre cellule ad attivarsi con finalità riparative. Il segnale di danno viene recepito soltanto da cellule che possiedono un particolare recettore, già precedentemente individuato dal gruppo, chiamato GPR17.
Alcune di queste cellule reagiscono alla lesione producendo un’infiammazione locale, che ha inizialmente finalità difensive ma che finisce per contribuire alla distruzione definitiva della zona lesionata. Immediatamente dopo, cellule immunitarie attivate dal segnale di danno migrano all’interno della lesione per rimodellarla e favorire la formazione di nuovi circuiti cerebrali; al tempo stesso, cellule progenitrici immature presenti nel tessuto cerebrale vengono attivate proprio attraverso la stimolazione del recettore GPR17 ed iniziano il percorso differenziativo che potrà portarle a generare nuove cellule nervose.
“Si tratta di progenitori immaturi simili alle cellule staminali che, in presenza di stimoli appropriati possono differenziarsi generando neuroni oppure cellule gliali”, spiegano le dottoresse Patrizia Rosa e Claudia Verderio dell’Istituto di Neuroscienze (IN) del Cnr, che hanno collaborato allo studio. “Un particolare titpo di cellula gliale (l’ oligodendroglia) costituisce la ‘guaina mielinica’ che, avvolgendo i prolungamenti nervosi, permette ai neuroni di comunicare fra di loro. Differenziandosi ad oligodendroglia questi precursori possono quindi ricostruire la guaina danneggiata dalla lesione ischemica, restituendo al neurone la capacità di trasmettere impulsi”.
A differenza di quanto si credeva, quindi, il processo di generazione di nuove cellule nervose e di riparazione dei circuiti cerebrali può avvenire anche nell’età adulta.
In condizioni normali però questo processo riparativo non si propaga in misura significativa, e il danno spesso prevale sull’attività ricostruttiva. “Ci siamo chiesti allora che cosa succede se proviamo a potenziare l’attività del recettore GPR17 presente sulla superficie delle cellule progenitrici”, spiega al professoressa Abbracchio. “Le nostre speranze si sono rivelate giuste: la stimolazione del recettore con i suoi ‘ligandi’ naturali aumenta notevolmente la maturazione di queste cellule verso forme più specializzate, in grado di riformare la mielina”.
Si tratta quindi ora di trovare terapie da somministrare precocemente nelle fasi successive a lesioni neurologiche acute (ictus, traumi spinali) o anche continuativamente nelle malattie degenerative croniche (come la sclerosi multipla e l’Alzheimer) per potenziare l’attività di questo recettore GPR17 e favorire quindi il rimodellamento neuronale. “Pensiamo di utilizzare un approccio misto che combini l’uso di agenti farmacologici attivi su GPR17 con l’uso di farmaci biotecnologici che ‘spingano’ il differenziamento delle cellule progenitrici verso il tipo cellulare desiderato danneggiato nella malattia”, conclude Davide Lecca, uno dei primi autori dello studio.