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Saluto dell’arcivescovo Riccardo Fontana

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Saluto con cristiana letizia il popolo di Dio che è pellegrino in Arezzo, Cortona e Sansepolcro. Il Papa mi ha chiesto di mettermi al servizio della Chiesa in mezzo a voi, che siete la presenza del Signore in un territorio di antico prestigio e di grande speranza.
Volgo il pensiero innanzitutto al presbiterio di cui farò parte e da cui confido di essere accolto come un successore degli Apostoli, che non vuole far altro che cingersi il grembiule per quella lavanda dei piedi che Gesù ci chiede di praticare, anche tra gli uomini e le donne del nostro tempo, con umiltà e coraggio, avendo per modello da imitare e seguire proprio Lui, il Signore.
Vengo a svolgere il ministero chiedendo ai più anziani consiglio, come a padri solerti che hanno generato alla fede generazioni di cristiani. Ai parroci e ai presbiteri che sono le colonne della Chiesa, offro la mia fraternità, sperando di condividere il sogno di cui è figlio il nostro sacerdozio, prezioso frutto del Concilio Vaticano II. Ai più giovani porgo con molto rispetto la mia paternità sapendo che il Signore affida a tutti noi la profezia: sulle orme del Padre Abramo, giunti all’età dei Patriarchi; come Mosè, negli anni in cui il Signore ci dà la forza e la competenza per guidare il suo popolo; come Davide, nella pienezza delle forze giovanili, per raccontare anche alla gente della generazione nuova, con i linguaggi e i segni loro comprensibili, che Chiesa è bello. Venendo da una gioiosa esperienza di fraternità presbiterale, vissuta per quattordici Pasque tra i preti che mi hanno forgiato come vescovo nella amata Chiesa spoletana e nursina, sono certo che il Signore mi farà trovare ancora la gioia di essere con voi cristiano e per voi vescovo. So che è possibile: metterò tutte le mie forze per realizzare la santa volontà di Dio, che è fonte della nostra pace e sigillo sacramentale della nostra unità.
Con forte stima e viva considerazione saluto i nostri seminaristi che sono il segno della speranza che il Signore ci offre, e i giovani uomini con i quali Dio assicura il futuro del ministero. Il Seminario è il cuore pulsante della diocesi e la casa comune dei ministri ordinati. La mia prima preghiera da vescovo è che fiorisca ancor più; che molti ragazzi trovino il coraggio e la gioia di rispondere di sì al Signore che, in molti modi, chiama ancor oggi al sacerdozio nelle nostre comunità ecclesiali. La significativa presenza di un bel numero di diaconi permanenti manifesta il fermento di servizio e di partecipazione che è vivo nella nostra Chiesa diocesana. A loro e alle loro spose, alle loro famiglie, vada la benedizione del Signore. Una Chiesa tutta ministeriale è la via che ci è data per costruire il futuro, alla luce del Vangelo, a partire dalla carità.
Raccolgo dal vescovo Gualtiero, amico e fratello di molti anni, il ministero di unità e di pace, nella ferma convinzione che vivere il Vangelo di Gesù è essenzialmente un’esperienza di comunione condivisa. La partecipazione responsabile della Chiesa non si misura dall’efficienza operativa, ma dalla carità che ciascuno pone in essere, perché tutti gli uomini che guardano al popolo di Dio possano coglierne il segno dell’amore vicendevole, principio distintivo della nostra identità. La vera, autentica fruttificazione, l’efficacia della Chiesa non si riscontra nelle grandi opere che fa, ma dall’amore che essa sa diffondere tra gli uomini. La nostra comune vocazione è di offrire al mondo lo strumento per ricondurre all’unità il genere umano, in un simbolico cammino da Babele e Babilonia, alla ricerca della Gerusalemme del Cielo. «Per la misericordia che ci è stata accordata, non ci perdiamo d’animo. Al contrario, abbiamo rifiutato le dissimulazioni vergognose, senza comportarci con astuzia né falsificando la parola di Dio, ma annunciando apertamente la verità, ci presentiamo davanti ad ogni coscienza umana, al cospetto di Dio» (II Cor 4,1-2), nel dialogo continuo e costruttivo con tutti, come quello di Gesù, Verbo incarnato, che non cessa di interloquire con ogni persona, perché tutti possano arrivare alla pienezza della gioia, alla libertà dello spirito e alla pace. Proverò a fare del mio meglio perché continuino a prosperare le prospettive di futuro che sono state seminate a piene mani in questi anni nella nostra Chiesa diocesana, tutto valorizzando, nello stile di quello scriba, che è simile a un padrone di casa, che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche.
Con trepidazione, consapevole della grande ricchezza di virtù cristiane e di carismi della comunità che mi accoglie, mi metto in fila dietro ai grandi vescovi che hanno retto questa Chiesa nei secoli. Pregate per me, perché possa imitarne la vita santa e la dedizione al popolo di Dio, nello specifico triplice compito che è proprio del ministero episcopale. Sull’onda di memorie per me dolcissime, esprimo il mio primo approccio con la Chiesa che mi accoglie, consapevole della povertà dei miei limiti, ma ricco d’amore sponsale.
Alla notizia del nuovo servizio che il Papa mi ha chiesto, sono andato a navigare sul sito della nostra diocesi, cercando di scrutare, almeno da lontano, come Isacco di ritorno dal pozzo di Lacai-Roi in attesa di incontrare Rebecca, le qualità e i tratti distintivi della Chiesa, che tra breve potrò conoscere di persona. Arrivo, come chi porta il segno della pace, quasi a restituire in particolare il bene spirituale che ricevetti – tra i vostri – da due vescovi aretini incontrati nel mio cammino di allora giovane sacerdote a Roma. Mi sovvennero nel bisogno, mi incantarono con il ricordo e il fascino della loro Chiesa madre. Il vescovo Cesare Zacchi mi fu padre con la sua amabilità e la sua fede forte e semplice in momenti per me difficili e di dura prova, quando dalla parrocchia mi mandarono nel servizio diplomatico della Santa Sede. Il vescovo Raffaello Funghini, uomo di rifinita cultura e di saggio equilibrio, mi fu amico caro ed esempio di fedeltà alla Chiesa e al Signore, che sempre guida la storia delle persone e del suo popolo.
Chiedo ai Pastori del gregge del Signore di far giungere il mio pensiero di stima e di affetto al laicato cristiano che, come i Re Magi, con sempre nuova meraviglia, porta i suoi doni al presepe: non già oro, incenso e mirra, ma la propria fede incarnata nella città secolare, nell’esercizio del lavoro e nella carità politica, senza trascurare chi è nella prova e nel dubbio.
Sono essi che fanno da sicuro riferimento all’interno della società umana; con il valore aggiunto della speranza cristiana rendono ancor più bella la Chiesa nel nostro tempo. Parrocchie, associazioni, movimenti, aggregazioni ecclesiali esprimono la ricchezza dello Spirito e la molteplicità delle esperienze che portano nuova luce tra i fedeli di Cristo in questo tempo bellissimo e pieno di sfide in cui ci è dato di vivere la nostra appartenenza al Signore. Nella Chiesa la diversità è sempre dono dello Spirito; solo le divisioni sono opera del maligno. Per costruire l’unità dobbiamo ripeterci l’un l’altro che «se nella Chiesa c’è posto per tutti, c’è posto anche per me».
Mi incanta sapere vivace e forte la componente più giovane della nostra realtà ecclesiale. Alla Pastorale giovanile ho dedicato gran parte del ministero svolto da prete, come figlio dell’Azione cattolica e come compagno di strada, per molti anni, di generazioni di scout. Porto nel mio ideale tascapane l’esperienza fatta in Umbria dove ho potuto rilanciare, con i fratelli vescovi di quella regione, le problematiche relative alla questione educativa in forte collaborazione con il mondo della scuola e la riattivazione degli oratori. Sono consapevole della ricchezza infinita che sono le famiglie.
Credo che l’icona di Nazareth sia la frontiera su cui si misura la credibilità della Chiesa del nostro tempo, nella gioia che rallegra le storie d’amore; nel rispetto delle difficoltà e nei percorsi segnati da convivenze difficili e da storie sofferte.
In questa fase la nostra storia è segnata da problemi e ostacoli: molti perdono il lavoro o non riescono a trovarlo; siamo in un travaso generazionale dove scompaiono antiche risorse e le nuove stentano ad affermarsi, con vero danno dei più deboli. Credo che, da cristiani, ancora una volta siamo chiamati a fare «nel mondo ciò che l’anima è nel corpo»: dobbiamo imparare a vivere l’impegno, come una professione di fede, qualunque sia il modo e il ruolo che ciascuno ha nella società, che siamo tutti chiamati a edificare con fattivi contributi.
La ricchezza spirituale dei carismi che si sono affermati nelle nostre terre sono una meraviglia che stupisce ancora e fa accorrere ogni anno migliaia di persone, interessate a scoprire il segreto della nostra vicenda profondamente umana e cristiana. La vita nello Spirito è la vera ricchezza che spesso manca ad alcuni nostri contemporanei e che noi siamo chiamati a mettere al primo posto nella nostra esistenza di cristiani e nel nostro servizio pastorale. Ve n’è una grande sete. Dalla casa natale di San Benedetto vengo pellegrino a Camaldoli, consapevole dell’alto ruolo che codesta esperienza religiosa ha nella Chiesa italiana. Dal Monteluco di Spoleto, dove San Francesco combinò la bellezza con la contemplazione, vorrei far mia l’esperienza de La Verna, inseguendo con trepidazione l’immagine del Cristo nella ferialità della vita. Anche a me sia data la speranza di imitare il mio Signore che Pietro negli Atti, con straordinaria sintesi, dice che passò in mezzo al popolo facendo del bene (cfr. Atti 10,27).
Chiedo a voi, sorelle e fratelli dei nostri monasteri, di sostenere il ministero che avvio in mezzo a voi con il prezioso supporto della preghiera e con la testimonianza di una radicalità di vita che ancor oggi, come all’epoca di Diogneto, fa chiedere agli uni e agli altri il perché. La vita consacrata è una risorsa di inesauribile efficacia per la Chiesa e rende ricco di specifici carismi l’esercizio della carità; porta nelle comunità il profumo del Cristo casto, povero e obbediente e il fascino di aderire al Vangelo «sine glossa». Alle donne forti della tradizione toscana, che nel passato furono religiose sante, madri di famiglia e spose integerrime, oggi compete un nuovo e più largo impegno: la Chiesa conta su di voi, si affida alla vostra capacità d’essere significative e capaci di aggregazione nella famiglia, nella comunità ecclesiale e nel lavoro, con i doni naturali e con la Grazia che il Signore vi concede in ogni stato di vita.
Nella terra di Petrarca, di Piero della Francesca, di Michelangelo, di Vasari e di tanti altri insigni per arte e letteratura, modelli di ideale cultura e di umanesimo incarnato, la Chiesa chiede a tutti di approfondire ancora il pensiero sull’uomo e la meditazione sulla sua sorte.
A poco più di quaranta anni da Gaudium et Spes, spero che la comunità ecclesiale che è in Arezzo-Cortona-Sansepolcro voglia rilanciare ancora la proposta dei valori che da secoli le appartengono: aggregare attraverso la cultura, che è tesoro comune di tutti e patrimonio, solo se condiviso, quanti hanno a cuore il bene comune. Esprimo fin dal primo inizio del mio ministero aretino la richiesta di collaborazione con tutti. Assicuro il mio pieno rispetto a chi, animato da passione per il Vero, si addentra nella libera e faticosa ricerca della scienza e dell’arte.
Con gli occhi fissi sulla resurrezione del Signore dal sepolcro – celeberrima nel mondo l’immagine nella Sala dei Conservatori della Residenza a Sansepolcro – che fu icona medioevale della predicazione del vescovo, il pensiero va ai poveri, ai malati, agli immigrati, ai bambini, a chi è senza lavoro o che per qualunque altra ragione al mondo è disperato. A tutti vorrei ripetere la speranza del Vangelo: speranza ardente è quella che è rivolta nell’unica direzione di Dio, della sua Parola; di chi considera il futuro più certo del presente; ha fiducia dell’intervento di Dio all’interno della storia, del singolo e del popolo.
Saluto con rispetto le autorità dell’ordinamento istituzionale della mia terra di Toscana, che ad Arezzo ha uno dei più solidi capisaldi della nostra comune, antica tradizione.
Per parte mia, assicuro agli uomini di buona volontà ogni cooperazione e sempre doverosa attenzione nel rispetto delle reciproche competenze. Sono convinto che, come una è la persona umana, così una è la società entro la quale la Chiesa e lo Stato rappresentano due facce inseparabili della stessa medaglia.
Santa Maria, invocata col glorioso titolo di Madonna del Conforto, sicuro riferimento della Chiesa diocesana che mi è affidata, continui a mostrarmi la dolcezza della sua maternità che mi assiste fin dalla prima giovinezza e mi insegni che, nella pluralità dei linguaggi e nelle diversità delle culture, a tutti noi tocca ripetere, come a Cana di Galilea, «fate quello che egli vi dirà» (Gv 2,5).