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Ad Arezzo il primato nazionale per cura sul piede diabetico

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E’ ormai considerata come una pandemia. Con il 5% della popolazione che ne soffre e una crescita esponenziale soprattutto fra i giovani e gli anziani. Ed è quasi sempre “colpa” dei pessimi stili di vita sui quali ci stiamo adagiando in tutti i paesi cosiddetti sviluppati. Parliamo del diabete, soprattutto di quello di tipo 2, conosciuto da tutti come diabete alimentare.
La scienza ha preso pienamente coscienza delle incredibili conseguenze che questa malattia sta provocando sulla salute di milioni di persone. Ora è compito della politica, della cultura, dell’educazione modificare questo stato di cose, mentre alla sanità è demandato il compito di seguire e curare queste persone.
Nella sola provincia di Arezzo si calcola siano fra i 15 e i 18 mila coloro che soffrono seriamente di diabete.
11.280 ufficialmente sono iscritti fra coloro che sono esenti per patologia (solo sei mesi fa erano 2.000 in meno, complice anche la crisi economica che permette a un numero sempre minore di comprare farmaci e presidi con le proprie risorse). Ma molti altri, pur conoscendo la loro condizione di malati diabetici, evitano di chiedere l’esenzione nel timore di avere conseguenze indirette di altro tipo (primo di tutto limitazioni sulla patente di guida).

Quello lanciato dall’Azienda sanitaria aretina è un vero e proprio allarme sociale. Da anni ci sono campagne sui corretti stili di vita, sulla necessità di coniugare corretta alimentazione e movimento, per sostituire il fast food e la sedentarietà che colpisce sempre più soprattutto le giovani generazioni, con dieta adeguata e attività fisica. Ma colpisce e cresce anche fra i più anziani: il 20% degli ultrasettantenni ha il diabete.

Ma perchè questa malattia fa e deve far paura?
Risponde Lucia Ricci, direttore della unità operativa di diabetologia della Asl: “I soggetti colpiti da infarti, ictus e che subiscono amputazioni, provengono nella maggior parte dei casi dalla vasta platea dei diabetici. Le malattie cardiovascolari, nascono, sempre più proprio dal diabete”.

Un dato che deve far pensare e deve spingere chi ne ha il dovere e le possibilità, ad avviare una autentica “guerra” al diabete, intervenendo nella fase di prevenzione.
Ma intanto si deve gestire questa grande massa di ammalati, spesso nuovi, che si affacciano ai servizi aziendali per chiedere controlli, accertamenti e cure.
I medici di medicina generale sono il primo grande filtro e luogo di controllo e cura. Ma quando la malattia si scompensa o si complica, ci si rivolge alle strutture ospedaliere della Asl, che comunque seguono sempre i pazienti che fanno l’insulina.
Arezzo ha approntato, nell’ambito degli ambulatori della unità operativa di Diabetologia, oltre al servizio cosiddetto ordinario, quello per seguire le gravidanze (dove si presentano sia soggetti già con diabete, sia soggetti che acquisiscono un diabete temporaneo durante la gestazione), e per la cura del piede diabetico.
Questa patologia è un autentico flagello, che va a sommarsi alle problematiche più tipicamente cardiovascolari, come infarto ed ictus.
Ed è proprio su questo fronte che Arezzo ha ottenuto anche nell’ultima classifica stilata dal Ministero della Sanità, sulla base dei dati reali, il primato nazionale, assurgendo a modello dapprima toscano e di riferimento anche nazionale.

“I numeri parlano chiaro – afferma la dottoressa Ricci: a fronte di una media regionale che oscilla negli ultimi anni fra i 34 e i 43 casi di amputazione del piede per ogni milione di residenti, nella nostra azienda oscilliamo da 5,7 a 13 ogni milione di abitanti: in termini assoluti significa numeri molto bassi, zero amputazioni nel 2009 per i pazienti seguiti ad Arezzo e 3 nel 2010. E la media nazionale non è migliore di quella toscana, con punte elevate sia in alcune zone del nord Italia, che del centro e ancor peggio del meridione.”

Una capacità di Arezzo che è riconosciuta tanto da chiamare la dottoressa Ricci a far parte della Commissione Regionale per le attività diabetologiche .
Tutto questo è frutto di un miracolo? Della fortuna?
“No – si schernisce Ricci – non c’entrano miracoli e fortuna. Dico innanzitutto che assieme alla equipe che da anni è impegnata con me su questo fronte, abbiamo raggiunto risultati che sono frutto di un lavoro duro, ma appassionato, un gruppo che lavora senza riserve e con grande disponibilità .
Ma è il metodo organizzativo e scientifico ad averci portato a questi risultati. Con un approccio multidisciplinare che anche in questo campo è davvero fondamentale. Per la cura dei nostri pazienti abbiamo individuato dei percorsi nei quali sono coinvolti fior di professionisti della nostra Asl, e voglio citare chi ha creato il percorso: la Cardiologia con Bolognese e Liistro, la Chirurgia Vascolare con Bellandi, le Malattie Infettive con Caremani, la Radiologia e la Microbiologia sempre pronte a fornirci in tempi rapidi le risposte degli esami richiesti.”. Un Gruppo capace, forte e coeso, di cui fanno parte altri giovani e valenti Colleghi.

L’ambulatorio del piede diabetico, gestito da un medico e tre infermieri, vede ogni anno l’accesso di 325 muovi pazienti, che poi producono oltre 5000 visite per un totale di oltre 25.000 prestazioni. Dalla presa in carico alla guarigione in genere si impiegato 6-8 mesi.
Gli ottimi risultati derivano da più fattori, a partire dal percorso assistenziale individuato e coordinato dalla stessa persona: bene la diagnosi con la partecipazione di più specialisti, funzionale e rapida la rivascolarizzazione, immediata la risposta sapendo che il tempo è un fatto determinante all’evoluzione della malattia con conseguenze pesanti sul piede dei diabetici. “Uno dei motivi di maggiore orgoglio – dice Lucia Ricci – è la continua verifica della qualità del percorso ed il risultato finale, la guarigione, è il risultato di tutti. Evitare l’amputazione, ma anzi guarire il paziente, significa anche sottrarre i più anziani all’elevato rischio di mortalità legato a questo intervento”.
Che Arezzo abbia queste capacità su una patologia in tale crescita, lo dimostra il fatto che circa il 20% dei pazienti arriva ormai da fuori provincia o regione.