Home Attualità Omelia Cardinale Betori per la Solennità della Madonna del Conforto

Omelia Cardinale Betori per la Solennità della Madonna del Conforto

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La pagina del vangelo di Giovanni ora proclamata ci conduce sotto la croce del Signore, nei momenti finali della sua passione. Poco prima di consegnare il suo spirito al Padre, egli volge lo sguardo a chi lo ha seguito fino a quella collina su cui egli da compimento al suo dono di sé per l’umanità. «Presso la croce» scorge la figura di Maria, «sua madre», e quella di un discepolo senza nome, ma ben conosciuto ai lettori del vangelo, perché con l’appellativo di «discepolo che egli amava» (Gv 19,25.26) era stato protagonista di vicende significative della vita di Gesù e, nell’appellativo, veniva mostrato come colui che deteneva un legame speciale con il Maestro. La tradizione lo identifica con l’autore stesso del vangelo, l’apostolo Giovanni, ma nella logica del racconto assume un ruolo non semplicemente biografico, bensì simbolo: egli rappresenta il vero discepolo, colui che può dirsi tale perché ha accolto l’amore di Gesù e se ne è lasciato plasmare. In quel ruolo il vangelo vorrebbe che si potessero collocare tutti i suoi lettori, tutti i discepoli di Gesù, di ogni tempo, anche del nostro tempo, anche noi.

«[Gesù] disse alla madre: “Donna, ecco tuo figlio!”. Poi disse al discepolo: “Ecco tua madre!”» (Gv 19,26-27). Ai piedi della croce, Gesù unisce, «da quell’ora» (Gv 19,27), in un legame indissolubile di maternità e figliolanza, Maria e il discepolo. Questa collocazione nello spazio e nel tempo dell’atto del reciproco affidamento ha un valore su cui occorre attentamente riflettere. Non è una collocazione in qualche modo dovuta, quasi che a Gesù potessero mancare altre occasioni di compiere questo gesto. Egli, infatti, una volta risorto, continuerà e dialogare con i suoi discepoli e questi si troveranno ancora insieme a Maria. Ma questo gesto non si pone nella luce della risurrezione, bensì sull’orizzonte della morte del Signore: in esso non splende tanto il trionfo della vita, ma la definitività del dono.

Se le parole di Gesù sul reciproco affidamento della madre e del discepolo discendono dalla sua croce, il loro significato va cercato proprio a partire dal significato della croce. Nella croce come rivelazione suprema dell’amore di Dio per gli uomini va ricercato il senso della reciproca appartenenza che il Figlio di Dio chiede a sua madre e al suo discepolo. Non si tratta di intessere un legame affettivo, giustificato dal bisogno di coprire psicologicamente il vuoto che la morte sta per lasciare – peraltro solo provvisoriamente, in quanto essa di lì a tre giorni sarà vinta dalla potenza della risurrezione –, un legame che se restasse a questo livello sarebbe subito preda del sentimentalismo, dando luogo poi a uno sterile devozionismo. Si tratta invece di prendere parte a quel dono di sé che il Signore sta consumando sulla croce, un dono che per Maria è iniziato al momento dell’annunciazione, quando dichiarò all’angelo il suo totale abbandono, come una serva, alla parola del Padre, e che per il discepolo era iniziato con il mettersi al seguito del profeta di Nazareth, dal quale aveva imparato che il compimento di sé non si ha nel dominare, ma nel servire e nel dare la vita per gli altri. Sentire Maria come un dono per noi e comprendere se stessi come un dono che nella mani di Maria ci ricongiunge al Figlio è il senso ultimo di questo gesto che nasce dalla parole di Gesù sulla croce, da cui scaturisce un progetto di vita intesa come dono, solo come dono.

Nelle parole che seguono, l’affidamento assume la forma di un’accoglienza affidata all’immagine della dimora: «E da quell’ora il discepolo la prese nella sua casa» (Gv 19,27). Ma prendere dimora, abitare o rimanere, è immagine che va ben oltre il dato materiale e serve anzitutto a illuminare il mistero stesso di Dio e poi quello della nostra divinizzazione. Così Gesù prega: «Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv 17,21). Nel mistero stesso di Dio e in quello della nostra salvezza occorre attingere i caratteri che deve assumere la nostra accoglienza di Maria.

Il legame e l’accoglienza impegnano la Madre e il discepolo, ma in modo diverso: l’una da donna e madre, l’altro da discepolo e figlio. Da una parte un amore che dà vita, la genera e la rigenera; dall’altra un amore che esige abbandono, fedeltà e gratitudine. Il nostro amore deve superare gli ostacoli della superficialità e dell’egoismo; l’amore della Madre chiede che ci lasciamo plasmare da esso e conformare a sua immagine.

All’interno di questo amore materno e fonte di vita si colloca l’attitudine del “conforto”, che dà titolo a questa nostra festa e che apre orizzonti di novità di vita nei momenti di oscurità e di sofferenza. In momenti dolorosi e tenebrosi accaddero i fatti prodigiosi che sono all’origine della devozione di tutta Arezzo alla “Madonna del Conforto”, dal 1796 ad oggi. Nei momenti dell’afflizione e dell’angoscia l’immagine luminosa di Maria appare come un orizzonte di speranza e una forza di vita, cui ci si è rivolti con fiducia nei secoli e ancora oggi questa città si rivolge con tenero affetto e confidente attesa.

Il conforto che Maria ci dona ha le sue radici nella consolazione che distingue il volto paterno di Dio. Dai testi biblici che abbiamo proclamato possiamo cogliere i tratti di tale sentimento divino e quindi cosa possiamo attenderci dal conforto di Maria.

Una pienezza di vita scaturisce dalla consolazione che l’amore di Dio diffonde nella città santa, secondo il profeta Isaia, un’immagine di prosperità, «un torrente in piena» (Is 66,12), che contrasta l’immagine di privazioni e rinunce con cui nella cultura diffusa attorno a noi si cerca di ostacolare la fede. È una vita piena che conduce alla gioia: «gioirà il vostro cuore» (Is 66,14); una gioia vera, che nulla ha a che fare con le soddisfazioni effimere di piaceri che non bastano mai, perché incapaci di colmare l’inquietudine profonda del cuore. Dal cuore di Maria sgorga per noi una vita che risponde ai nostri sogni più belli e alle nostre speranze più autentiche, perché fondata sull’amore stesso di Dio, il solo capace di fare nuove tutte le cose.

Nella sua lettera l’apostolo Paolo ci introduce ad ulteriori passi in questa rivelazione della consolazione divina. Essa è strettamente unita alla sofferenza e costituisce la risposta di Dio al bisogno dell’uomo, Lui che è «Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione! Egli ci consola in ogni nostra tribolazione» (2Cor 1,3-4). Secondo Paolo, l’afflizione dell’uomo invoca la consolazione di Dio e questa si manifesta fedelmente. Questa fedeltà è fondata sulla persona stessa di Cristo, in cui sofferenza e consolazione si intrecciano come due volti della stessa esperienza. Nella sofferenza di Cristo si rivela la consolazione di Dio e seguire lui significa vivere anche noi questa esperienza: «Come abbondano le sofferenze di Cristo in noi, così, per mezzo di Cristo, abbonda anche la nostra consolazione» (2Cor 1,5).

Un’esperienza che supera ogni confine personale e si fa fondamento di comunione e di solidarietà: «Quando siamo confortati, è per la vostra consolazione» (2Cor 1,6). Dal conforto che Maria ci dona nasce una forza comunitaria, quella che i primi discepoli sperimentarono nei giorni di trepidazione che seguirono l’ascensione del Signore; ne abbiamo bisogno anche oggi in giorni nuovi e complessi per la Chiesa, che sa però di avere sempre la guida del suo Signore e la dolce protezione della Madre.

Da ultimo, l’apostolo ricorda che la consolazione divina è il fondamento di una «speranza… salda» (2Cor 1,7). Quella solidità che nessuna risorsa umana può assicurare, vittime come siamo di molteplici fragilità, è invece il dono di una misericordia che è il volto stesso di Dio. Il conforto che attendiamo da Maria è il frutto di questa misericordia e al vertice di questo conforto si pone il riconoscimento di Dio come misericordia, contro ogni contraffazione del suo volto e contro ogni mistificazione della nostra identità. In questo Anno della Fede chiediamo che Maria ci conforti illuminando la nostra mente e sostenendo il nostro cuore per fare una esperienza vera di Dio, il «Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione!» (2Cor 1,3)!