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Brambilla, occorre più flessibilità nel sistema previdenziale

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Roma, 21 ott. (Labitalia) – “Il sistema previdenziale italiano così come è stato disegnato dall’ultima riforma Fornero soffre di una rigidità veramente eccessiva: se fossero introdotti elementi di flessibilità, con poco costo o a costo zero, non ci sarebbe bisogno di pensare a ipotesi di ‘anticipo’ sulla pensione da restituire poi a rate. Ipotesi peraltro di difficile realizzazione”. Lo dice a Labitalia uno dei principali esperti di previdenza italiana, Alberto Brambilla, docente di ‘Gestione delle forme previdenziali pubbliche e complementari’ all’Università Cattolica di Milano. Brambilla è stato anche sottosegretario al ministero del Welfare, con delega alla previdenza sociale, dal giugno 2001 al maggio 2005.
“Oggettivamente -dice Brambilla- l’ipotesi dare un anticipo sulla pensione la vedo poco praticabile e poco utile. Se si trattasse di un anticipo dato tre anni prima della pensione, tutto in una volta -ipotizza- mettiamo di 48.000 euro (corrispondente a circa 1.200 euro al mese lordi per 13 mensilità e per tre anni), nei 10 anni successivi alla pensione il pensionato dovrebbe restituire almeno 5.000 euro all’anno. E non è poco se la sua pensione è di 1.000 euro netti. E se nel frattempo la persona viene a mancare? Anche questo è un aspetto da considerare”.
E se “invece si sceglie di dare 100 o 150 euro in più al mese a partire dai tre anni prima della pensione mi chiedo a cosa serva. Se un lavoratore è esodato o è in cig o in cigd, la vita gli cambia davvero poco”, sostiene Brambilla.
Insomma, il vero problema è la rigidità del sistema. “Fornero -ricorda Brambilla- ha introdotto tutto in una volta uno ‘scalone’ di 6 anni e mezzo sull’età pensionabile. Una cosa mai vista prima: quello introdotto da Maroni era di 3 anni e suscitò un polverone infinito. Ora si dovrebbero percorrere 4 strade per rendere il sistema più flessibile: la prima è eliminare quella sciocchezza galattica, che nessun sistema previdenziale europeo ha, dell’indicizzazione dell’anzianità contributiva in relazione alle attese di vita. Un’assurdità”.
“Si può indicizzare l’età di pensionamento alla speranza di vita -spiega Brambilla- e questo già era stato fatto al tempo in cui anch’io ero al governo. Ma aver indicizzato anche l’anzianità contributiva alla speranza di vita è stato un errore perché quando uno ha lavorato 41 anni bisogna che lavori fino a 42, poi 43, poi 44 perché questa indicizzazione porterà il livello sempre più in alto. Così già adesso un lavoratore per andare in pensione deve avere 42,8 anni di contributi e presto ne dovrà avere 44”.
Questa dell’indicizzazione contributiva “è la prima cosa a cui porre rimedio perchè per quanto mi sembra possono anche ipotizzarsi profili di incostituzionalità”. “Non è pensabile -osserva Brambilla-che un lavoratore possa andare in pensione a 66 anni e 6 mesi con 20 anni di contributi, che è quello previsto dalla norma, e che uno con 41 anni di anzianità contributiva che però non ha ancora 67 anni non può andare in pensione o se ci va lo fa con le penalizzazioni”.
“Tornando ai 40 anni di contributi come soglia per il pensionamento, non avremmo bisogno di erogare anticipi sulla pensione: ci sarebbe una finestra di uscita e si potrebbe dare l’assegno”, dice. Il secondo elemento di flessibilità dovrebbe essere “la possibilità per le donne di andare in pensione a 61 anni anziché a 65, con uno ‘sconto’ sulla pensione” e la terza, prosegue Brambilla, dovrebbe essere una misura che agevola soprattutto gli esodati ma non solo.
“Chi ha perso il lavoro e ha 33 anni di contributi -ricorda l’esperto- deve ‘coprire’ due anni di contributi per poter andare in pensione. Ma la maggior parte delle persone in queste condizioni trova un lavoro a partita Iva o da co.co.co. Perché allora, visto che le collaborazioni coordinate e continuative sono previste dal nostro Codice da almeno 30 anni, non dare la possibilità a questi lavoratori di versare volontariamente questi contributi nella gestione principale?”.
Infine, la totalizzazione dei contributi, quella cioè che interessa contributi versati in gestioni diverse. “Se io lavoro 15 anni in Spagna e 20 in Italia -conclude Brambilla- l’Inps mi versa la pensione per via delle norme europee, ma se io ho 15 anni di contributi da una parte e 20 dall’altra, ma tutti in Italia, no. Un’assurdità”.