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Festival Roma: Fedorchenko, i miei “Angeli” non fanno politica

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Roma, 22 ott. (AdnKronos/Cinematografo.it) – “Non è un film politico, piuttosto sull’incomprensione tra differenti civiltà. Non ci si può rapportare agli altri pensando valgano sempre i propri parametri”. Il russo Alexei Fedorchenko porta in anteprima mondiale al Festival di Roma il suo ‘Angeli della rivoluzione’, ambientato nell’Unione Sovietica degli anni ’30, per raccontare i drammatici eventi avvenuti nel 1934 a Kazym, nella taiga sulle sponde del fiume Amnja, dove il regime istituì un centro culturale che comprendeva una scuola, un ospedale, un ambulatorio veterinario e un museo.
Ma i nativi, gli Ostiachi e i Nenci della Foresta, non accettavano questa nuova cultura: le loro antiche divinità vietavano ogni forma di contatto con i russi. Per tentare di risolvere la situazione, i piani alti decisero di inviare cinque artisti – un compositore, uno scultore, un regista di teatro, un architetto e un famoso regista cinematografico, guidati dalla leggendaria “Polina la rivoluzionaria” – per conciliare due culture così profondamente agli antipodi. Ma gli esiti non furono quelli sperati.
“Non ci sono personaggi negativi in questo film: gli artisti, come i nativi, vivono la loro vita nel pieno delle loro convinzioni e quello che è accaduto lì è qualcosa di molto simile a tutte le altre occupazioni coloniali nel resto del mondo. Volevo mostrare l’incontro/scontro tra queste due culture – quella dell’avanguardia russa e quella dello sciamanesimo – attraverso i canoni del teatro popolare”, dice ancora Fedorchenko, che proprio oggi al Festival riceverà il Marc’Aurelio del Futuro
“E’ davvero una strana coincidenza, visto che per me l’Italia è legata al nome Marco. Tutto è iniziato a Venezia (alla Mostra del 2005 portò ‘First on the Moon’, nel 2010 ‘Silent Souls’, ndr), il cui simbolo è piazza San Marco, incarnazione di un incantesimo, poi torno a Roma (dove nel 2012 portò ‘Le spose celestiali dei mari di pianura’, ndr) e ricevo il Marc’Aurelio, personaggio incarnazione del paganesimo e infine Marco Mueller, che per me rappresenta la cultura”, conclude il regista