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Tumori: esperti cancro ovarico, obiettivo test genetico Brca nei Lea

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Milano, 21 nov. (AdnKronos Salute) – “L’obiettivo, ambizioso, è chiedere l’inserimento del test genetico Brca all’interno dei Livelli essenziali di assistenza, garantendone il diritto di accesso a tutte le donne con tumore ovarico, perché è importante che venga offerta loro la stessa possibilità ovunque in Italia”. A riassumere il senso di analizzare, raccogliere dati e sensibilizzare sull’importanza dei test per la ricerca delle mutazioni dei geni Brca 1 e 2 per le pazienti con tumore ovarico e i loro familiari è Francesca Merzagora, fondatrice e presidente di Onda (Osservatorio sulla salute della donna), che oggi a Milano ha presentato il progetto ‘Mutazioni genetiche nel carcinoma dell’ovaio’.
Progetto che si occupa del cosiddetto ‘diritto di gene’, insieme alla campagna d’informazione lanciata sul web da Acto onlus, ‘Io scelgo di sapere’, e allo studio dell’Altems (Alta scuola di economia e management dei sistemi sanitari) dell’università Cattolica che ha valutato come “costo-efficace per il Ssn l’estensione dei test genetici Brca alle familiari delle pazienti con tumore ovarico positivo alla mutazione”, spiega Americo Cicchetti, ordinario di Organizzazione aziendale della Cattolica di Roma e direttore di Altems.
Il progetto di Onda è a tappe: prevede di censire “130 ospedali in 9 regioni d’Italia per capire a quante pazienti viene proposto il test Brca, se esiste un laboratorio interno, se ci sono barriere all’accesso, per avere un quadro dell’offerta”, spiega Merzagora. “Poi è prevista un’indagine su 50 pazienti con carcinoma ovarico, metà delle quali sottoposte a test, per capire il loro vissuto, il percorso seguito, le loro emozioni. E ancora seguiranno interviste a 30 parenti di pazienti con carcinoma mutato geneticamente, per capire cosa le ha portate a sottoporsi o meno al test e se il livello di informazione è stato sufficiente”.
I risultati, prosegue la fondatrice e presidente di Onda, “saranno condivisi in 3 focus group con un gruppo di oncologi per mettere in evidenza il gap tuttora esistente fra quello che viene fatto e le raccomandazioni delle due società scientifiche Aiom e Sigu. Un Libro bianco infine raccoglierà tutte le informazioni e porterà, pensiamo a giugno dell’anno prossimo, alla richiesta alle istituzioni di inserimento nei Lea. Il progetto parte dalla considerazione che in Italia non vi è possibilità di accesso omogenea per tutte le donne che ne avrebbero bisogno. Alcune Regioni sono più virtuose di altre”.
Un punto a favore di una strategia di test per i familiari delle pazienti lo offre lo studio farmaco-economico Venus (Valorization of genetic testing future uses) sviluppato da Altems, che ha operato un confronto con una strategia ‘no test’. “Lo studio dimostra che l’investimento è sostenibile – precisa Cicchetti – e conveniente sia dal punto di vista della produzione di salute aggiuntiva sia per il controllo dei costi. Ipotizzando una soglia di pagamento pari a 40 mila euro per un anno di vita guadagnato pesato per qualità (Qaly), l’analisi mostra che l’estensione dei test risulta costo-efficace nel 97% delle simulazioni effettuate”.
Andando a vedere “i costi che evitiamo a confronto con quelli che sosteniamo per sviluppare una rete che si occupi di questo, il risultato è di piena costo-efficacia: nel caso base analizzato, otteniamo addirittura maggiori vantaggi in termini di salute con minori costi, che è qualcosa di raro. L’estensione del test alle familiari delle pazienti si configura come un investimento piuttosto che semplicemente una spesa per il sistema sanitario. Lavorando su una coorte di 4.800 persone, osserviamo che la strategia di test costerebbe al sistema circa 20 milioni di euro, ma non farla costa di più, intorno a 30 mln nel caso base”.
Se per le pazienti si parla di un accesso a terapie più mirate, per i familiari si parla di prevenzione. “La mutazione – spiega Nicoletta Colombo, direttore Programma ginecologia oncologica Istituto europeo di oncologia – viene trasmessa in maniera dominante e se una donna ce l’ha sappiamo che i suoi figli hanno il 50% di probabilità di averla ereditata. Per loro si apre uno scenario di prevenzione sia medica, con la pillola contraccettiva che può ridurre fino al 50% questo rischio di sviluppare tumore, ma soprattutto chirurgica, l’asportazione di tube e ovaie, che di solito consigliamo dopo aver esaurito il desiderio riproduttivo, in genere dopo i 40 anni. Questa procedura è in grado di ridurre di circa l’80% il rischio di sviluppare una neoplasia che purtroppo è altamente letale”.
C’è da fare ancora molto, avverte Colombo, “siamo ben lontani da quello che vorremmo, e cioè che tutte le donne con carcinoma ovarico venissero testate al momento della diagnosi come raccomandano le linee guida sia nazionali che internazionali. Le barriere sono in parte la necessità di una consulenza genetica che non sempre è facilmente accessibile e in parte la rimborsabilità del test che varia molto da Regione a Regione”.
Come Aiom (Associazione italiana di oncologia medica), spiega il presidente eletto Stefania Gori, “per il prossimo futuro ci dobbiamo impegnare molto per capire quali laboratori in Italia possono effettuare queste analisi e identificare il percorso che all’interno delle oncologie e dei gruppi multidisciplinari deve essere fatto per assicurare a ogni donna la valutazione del Brca e le cure adeguate. E’ un’operazione complessa, anche perché finora la sensibilità degli oncologi al tema era un pochino bassa, e per una questione di tempi talvolta lunghi per i referti. L’arrivo di un nuovo farmaco che modifica la sopravvivenza nelle pazienti con carcinoma ovarico ha portato alla luce il problema, dobbiamo ora agire affinché il Ssn possa dare risposte concrete”.