Home Nazionale Giovanni Affaba (Sipcam-Oxon): “Agrochimica dimostra che globalizzazione avvantaggia Cina”

Giovanni Affaba (Sipcam-Oxon): “Agrochimica dimostra che globalizzazione avvantaggia Cina”

0

Roma, 4 lug. (Labitalia) – “L’agrochimica dimostra che la globalizzazione avvantaggia la Cina”. Lo dice, in un’intervista con Labitalia, l’esperto Giovanni Affaba, amministratore delegato di Sipcam-Oxon, primo gruppo multinazionale italiano e 15esimo al mondo del settore dell’agrofarmaco, con fatturato consolidato previsionale 2016 di 476,3 milioni di euro. “Il fatto che -spiega- le multinazionali dell’agrofarmaco delocalizzano in Cina è una tendenza a cui assistiamo da oltre 20 anni. La prima ragione è monetaria. Il mercato degli agrofarmaci, il cui impiego è essenziale per ottenere derrate alimentari in quantità sufficiente per sfamare la popolazione mondiale, che oggi ammonta a quasi 7,5 miliardi ed è in continua crescita, è legato al dollaro a cui è ancorata la moneta cinese. Del resto, la maggiore domanda di agrofarmaci viene da Stati Uniti e Brasile”.
“Così -fa notare- si spiega la delocalizzazione delle multinazionali di area euro, moneta che sin dalla sua introduzione è sempre stata decisamente apprezzata rispetto al dollaro, facendo di conseguenza perdere competitività alle produzioni europee a vantaggio di quelle asiatiche. Questa tendenza riguarda tutte le maggiori multinazionali. Basf, Bayer, Dow, DuPont, Monsanto e Syngenta mantengono la produzione delle molecole brevettate nei paesi d’origine, mentre delocalizzano per la produzione di quelle il cui brevetto è scaduto e sono diventate generiche”.
“Noi stessi -ammette Affaba- come Sipcam-Oxon abbiamo impianti produttivi in Italia, in Spagna e Brasile, ma siamo presenti in Cina con due partecipate: Jiangyin Suli Chemical (ubicata a Jiangyin – Jiangsu) e Taizhou Bailly (presso Taixing – Jiangsu)”.
“Il confronto con la Cina -chiarisce- evidenzia la mancanza di competizione basata su regole certe e con reciproci vantaggi, il che è una distorsione degli effetti della globalizzazione che, viceversa, dovrebbe implicare regole e opportunità uguali per tutti. Non è tanto una questione di stipendi: nel nostro settore il costo della manodopera incide per meno del 5% sul costo del prodotto finale. A essere competitivo è l’intero ‘sistema’ Cina. Il costo di un’opera civile in Cina, sia esso un ufficio o un magazzino, è un decimo di quello europeo. Il costo di un impianto chimico è un settimo”.
“Anche la burocrazia -sottolinea- è decisamente più semplice. In Cina si può realizzare un nuovo investimento chimico in sei mesi, nello stesso lasso di tempo in Italia è quasi impossibile ottenere tutte le autorizzazione necessarie. Pechino ha creato una concorrenza sleale anche attraverso la leva fiscale. Le aziende cinesi che esportano hanno usufruito e usufruiscono del ‘tax refound’, il rimborso delle tasse sul prodotto esportato; queste organizzazioni possono arrivare a vendere al loro costo di produzione guadagnando dalla restituzione delle imposte”.
“Fino a pochissimi anni fa -rimarca- nell’agrochimica la Cina ha svolto un ruolo quasi esclusivamente di produttore, per il mercato domestico e per l’esportazione. Ora assistiamo alla tendenza ad allargarsi e a espandersi anche nella distribuzione nei singoli Paesi; pensiamo a ChemChina che ha acquistato la prima società mondiale di agrochimici (Syngenta) mettendo sul piatto 43 miliardi di dollari”.
“La globalizzazione -spiega ancora l’esperto- oggi è conveniente dove ci sono incentivi alla produzione. Bisognerebbe trovare una declinazione della globalizzazione che porti a relazioni e scambi commerciali basati su una concorrenza corretta, leale e con utilità per tutti. Siamo d’accordo, per ragioni etiche e di civiltà, che ci sia sempre maggior sicurezza negli impianti e nel rispetto dell’ambiente. Ma così dovrebbe essere per tutti. E’ vero che la Cina è più sensibile al tema dell’ambiente, si pensi al piano ‘Blue Sky’ durante le Olimpiadi di Pechino del 2008 – fa notare – o alla costruzione dei parchi chimici fuori dalle città, dove concentrare le infrastrutture e i siti produttivi. E’ vero che Pechino ha aderito all’accordo di Parigi sul clima, ma da un lato ci sono dubbi sui controlli e dall’altro è necessario considerare che gli obiettivi sono proporzionalmente inversi al livello di sviluppo”.
“Abbiamo deciso 20 anni fa -ricorda Giovanni Affaba- di mantenere la produzione in Italia nei nostri siti produttivi di Salerano sul Lambro (Lodi) e Mezzana Bigli (Pavia): è stata una scelta difficile perché, numeri alla mano, non avrebbe avuto senso; poi sono intervenute altre variabili, la nostra italianità, l’attenzione agli assetti occupazionali, la consapevolezza che a lungo termine le situazioni asiatiche sarebbero cambiate. Certo che quando si è trattato di pensare a nuovi investimenti, quelli necessariamente si sono dovuti fare in Cina, dove negli anni abbiamo realizzato due joint venture: Jiangyin Suli Chemical e Taizhou Bailly Chemical”.
“Sono però molto orgoglioso -rimarca- di dire che queste scelte, nonché i mutati scenari di cambio euro/usd intercorsi negli ultimi anni, ci hanno consentito di realizzare il nostro ultimo investimento in Italia; un’inversione di tendenza che mi auguro non sia occasionale ma di lungo periodo. A inizio 2017 è entrato in funzione presso il sito di Mezzana Bigli il primo impianto italiano ed europeo per la produzione di un agrofarmaco: il clomazone. Il nuovo impianto, realizzato con un investimento di 14 milioni di euro, di ultima generazione e a controllo automatico dcs (distributed control system), avrà una capacità produttiva annua di 800 tonnellate”, conclude.