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Salute: Sid, menù mediterraneo batte diete ‘estreme’ per pazienti diabetici

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Roma, 13 mar. (AdnKronos Salute) – Più del 7% degli italiani è diventato vegetariano e l’1% vegano. La dieta paleolitica continua a fare adepti e quella chetogenica promette di perdere chili senza sentire i morsi della fame. Diete ‘estreme’ sempre più seguite, a discapito del classico menù mediterraneo. Ma questi tipi di alimentazione fanno bene al diabete e in generale alla salute? In un documento di consenso della Società italiana di diabetologia (Sid), gli esperti tracciano benefici e controindicazioni dei regimi alimentari alternativi in voga negli ultimi anni.
“L’alimentazione è una delle pietre miliari nella prevenzione e nel trattamento del diabete mellito 2 – spiegano gli specialisti – con l’obiettivo non solo di migliorare il controllo glicemico e gli altri fattori di rischio cardio-metabolici, ma anche di ridurre le malattie cardiovascolari responsabili del 70% della mortalità in questi pazienti”. Per questo “è di fondamentale importanza fornire evidenze solide che permettano di intraprendere stili di vita non soltanto sicuri, ma anche efficaci nel prevenire la comparsa e la progressione della malattia diabetica”.
Per Giorgio Sesti, presidente della Sid, “le evidenze scientifiche disponibili non consentono di valutare gli effetti a lungo termine delle diete vegetariana, vegana, chetogenica e paleolitica sul diabete tipo 2 e le sue complicanze. Invece la dieta mediterranea, basata sull’introito di alimenti ricchi di fibre provenienti da ortaggi, frutta e cereali non raffinati e povera di grassi di origine animale, è stata ampiamente studiata dimostrando i suoi benefici sia sul controllo del diabete sia sul rischio cardiovascolare”. Infatti, “per determinare un calo ponderale, sia una dieta a basso contenuto di grassi e calorie, sia una dieta a basso contenuto di carboidrati, sia una dieta mediterranea, naturalmente ricca in fibre vegetali, possono essere efficaci fino a 2 anni. Ma l’aderenza a un modello alimentare mediterraneo anche in assenza di calo ponderale riduce l’incidenza del diabete del 52% rispetto a una dieta povera di grassi”.
DIETA VEGETARIANA-VEGANA. Diversi studi epidemiologici ne suggeriscono potenziali benefici su indice di massa corporea, ipertensione, eventi coronarici, alcuni tipi di cancro e aspettativa di vita. E studi condotti sui diabetici dimostrano che migliora il compenso glicemico e altre anomalie metaboliche, riducendo il fabbisogno dei farmaci anti-diabete. Inoltre, secondo l’Unione vegetariana europea, l’Italia (insieme con la Germania) ha il più alto tasso di vegetarianismo in Ue: con un trend in aumento rispetto al 6,5% del 2014 e al 5,7% nel 2015, raggiungendo il 7,1% nel 2016. Per stabilire dunque se la dieta vegetariana sia realmente valida e possa essere raccomandata al paziente diabetico come alternativa alla dieta tradizionale, gli esperti della Sid hanno analizzato le evidenze scientifiche derivanti dagli studi osservazionali e d’intervento.
“Nonostante i risultati degli studi finora disponibili siano consistenti nel mostrare gli effetti benefici della dieta vegetariana e vegana nella cura del diabete mellito tipo 2 e sul controllo dei fattori di rischio cardiovascolare – osservano gli specialisti – prima di poter raccomandare queste diete come una valida e sicura alternativa alla dieta convenzionale sono necessari ulteriori studi d’intervento su campioni più numerosi di pazienti, che testino l’efficacia di queste diete indipendentemente dall’azione sul peso e da altri fattori confondenti e la loro adeguatezza nutrizionale nel lungo termine in varie fasce d’età”.
Ma quali sono gli effetti sulla prevenzione della malattia? Secondo gli esperti, gli studi “riportano un effetto protettivo della dieta vegetariana nei confronti dello sviluppo del diabete di tipo 2”. I risultati del ‘The Adventist Health Study-2’, uno studio condotto sugli ‘Avventisti del 7 giorno’ americani e canadesi (22.434 uomini e 38.469 donne di diverse etnie, aderenti a diversi modelli di dieta vegetariana), dimostrano che il rischio di diabete è più basso del 49% nei vegani, del 46% nei latto-ovo vegetariani e del 30% nei pesco-vegetariani, rispetto ai non vegetariani. I semivegetariani (le persone che consumano carne, uova e prodotti lattiero-caseari più di 1 volta al mese e meno di 1 volta la settimana) avevano un rischio di diabete intermedio, inferiore del 24% rispetto ai non vegetariani. In questa popolazione le diete vegetariane hanno inoltre dimostrato un beneficio non solo nei confronti del diabete, ma anche dei fattori di rischio cardio-metabolico, delle malattie cardiovascolari, di alcuni tipi di cancro (colon e del tratto gastro-intestinale) e della mortalità totale.
L’esclusione della carne dalla dieta riduce l’apporto di grassi saturi, con effetti positivi sul profilo lipidico e sul rischio cardiovascolare. Infine un elevato consumo di alimenti vegetali incrementa l’introito di fibra che aumenta il senso di sazietà, previene l’incremento del peso corporeo, riduce l’indice glicemico della dieta e apporta composti bioattivi con proprietà antiossidante e chemio-preventiva. Per quanto riguarda invece il controllo glicemico studi d’intervento nei pazienti diabetici tipo 2 “suggeriscono che seguire una dieta vegetariana offre maggiori vantaggi sul peso corporeo, sul controllo glicemico e lipidico”.
La dieta vegetariana consente inoltre di ridurre il fabbisogno dei farmaci anti-diabete: una metanalisi del 2014, condotta su diabetici che seguivano una dieta vegana e latto-ovo-vegetariana, e confrontata con una dieta convenzionale, dimostra che la dieta vegetariana-vegana riduce di più l’emoglobina glicata (ma non la glicemia a digiuno) e il peso corporeo, i livelli di colesterolo Ldl e la microalbuminuria delle 24 ore, migliorando al contempo la sensibilità all’insulina. Diversi studi hanno poi dimostrato che la prevalenza di ipertensione (il 70% dei diabetici la presenta) “è più bassa nei vegetariani-vegani rispetto agli onnivori”. Una revisione degli studi di intervento, che ha valutato l’impatto della dieta vegetariana-vegana sui livelli di colesterolo, ha dimostrato che “il cocktail più efficace per ridurre il colesterolo cattivo Ldl è la dieta vegetariana-vegana associata al consumo di frutta a guscio, soia o fibre, seguito dalle dieta vegana e ovo-latto vegetariana. Questa dieta riduce del 35% di colesterolo Ldl, effetto simile a quello ottenuto con le statine”.
La dieta vegetariana-vegana è amica del metabolismo. Ma va bene per tutti? Questi tipi di diete, spiegano gli esperti, rappresentano dei pattern dietetici estremi che non possono essere facilmente proposti alla maggior parte dei pazienti affetti da diabete mellito di tipo 2. La dieta mediterranea ha un basso contenuto di grassi saturi, è moderatamente ricca in grassi monoinsaturi e molto ricca di fibre e quando ristretta in calorie, si è mostrata egualmente efficace nell’indurre un calo ponderale sostenuto (-4,4 kg dopo 2 anni). Inoltre migliora la glicemia a digiuno e la sensibilità insulinica. Le diete vegetariane, poi, si associano a un minor rischio di malattie cronico-degenerative, ma la posizione delle società scientifiche di nutrizione circa l’adeguatezza nutrizionale della dieta vegana per l’uomo è piuttosto contrastante per la carenza di alcuni macro-micronutrienti: omega-3, calcio, vitamina D, vitamina B12. “La dieta vegana deve dunque essere supplementata con calcio, vitamina D e vitamina B12 – consigliano – mentre nei vegetariani una dieta ben pianificata contenente verdura, frutta, cereali integrali, legumi, frutta a guscio e semi oleosi può essere adeguata dal punto di vista nutrizionale”.
DIETA PALEOLITICA. E’ la dieta degli uomini primitivi che si nutrivano di quello che riuscivano a raccogliere e a cacciare. In questa dieta la quota proteica è decisamente elevata, anche in assenza dell’apporto dei derivati del latte. La quota di carboidrati, invece, non differisce nella quantità ma nella qualità, non prevedendo il consumo di prodotti provenienti dal grano. Il contenuto di sodio è basso, mentre quello di fibre, acido ascorbico e colesterolo è elevato.
Una recente metanalisi ha analizzato l’efficacia della dieta paleolitica sui fattori di rischio per le malattie croniche, confrontandola con altri regimi nutrizionali. Le persone nutrite con la dieta paleolitica, rispetto ai controlli, presentavano una riduzione della circonferenza vita, dei trigliceridi, della pressione arteriosa e della glicemia a digiuno, fattori che caratterizzano la sindrome metabolica. Da altri studi emerge che la dieta paleolitica aumenta il senso di sazietà e migliora la sensibilità insulinica.
“In generale – commenta la Sid – questi effetti benefici ottenuti nel breve termine non si mantengono nel lungo periodo. Questa dieta potrebbe dare inoltre problemi sul metabolismo del calcio perché mancano completamente latte e derivati”. Dunque “sono necessari studi su più larga scala e di durata maggiore per trarre conclusioni definitive sia sull’efficacia della dieta paleolitica nella prevenzione di malattie croniche ed eventi cardiovascolari, sia sui suoi possibili effetti avversi”, dicono gli esperti.
LA DIETA CHETOGENICA. Dagli anni ’60 la dieta chetogenica ha preso piede nella terapia dell’obesità (con l’introduzione della dieta Atkins) e più di recente è stata proposta come dieta per diabete, policistosi ovarica, acne e alcune forme tumorali. E’ caratterizzata da un basso contenuto di carboidrati (meno di 50 grammi al giorno, pari circa al 5% del fabbisogno calorico giornaliero), un alto contenuto di grassi (superiore al 60% del fabbisogno giornaliero) e quantità equilibrate di proteine senza limiti calorici. Questo regime alimentare induce una condizione metabolica definita ‘chetosi fisiologica’.
Se tra gli effetti positivi si evidenziano la riduzione dell’appetito, la perdita di peso, il miglioramento del tono dell’umore e, nei soggetti con diabete, migliorano l’insulino-resistenza e i parametri glico-metabolici, oltre alla possibilità di ridurre il dosaggio dei farmaci anti-diabete, gli esperti evidenziano alcuni aspetti negativi: secondo alcuni studi, questa dieta modifica l’assetto lipidico in senso aterogeno (aumento del colesterolo cattivo e riduzione di quello buono e aumento dei trigliceridi). Ma altre ricerche non hanno confermato questo dato.
Gli specialisti della Sid concludono dunque che “nel breve-medio termine, questo tipo di dieta è efficace nel ridurre il senso di fame e nel promuovere la perdita di peso. Gli effetti sull’assetto lipidico sono discordanti negli studi analizzati, pertanto non è possibile dare un giudizio definitivo sul ruolo della dieta chetogenica. La chetosi fisiologica, che si produce nelle diete a basso contenuto in carboidrati, potrebbe inoltre causare in pazienti predisposti episodi gravi di cheto-acidosi, soprattutto se protratte per lunghi periodi”.