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Stamina: Ferrari, in quella vicenda hanno perso tutti

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Milano, 31 ott. (AdnKronos Salute) – Nella vicenda di Stamina “hanno perso tutti. Purtroppo si sono instaurate delle dinamiche conflittuali fra i pazienti e tutte le altre parti. E credo che da conflitti del genere nessuno possa mai uscire vincitore”. E’ la riflessione di Mauro Ferrari, super scienziato italiano trapiantato negli Usa, vice presidente esecutivo dello Houston Methodist Hospital System, un colosso da 25 mila dipendenti. In occasione della sua ultima visita nel Belpaese, il pioniere del nanotech applicato alla medicina torna con l’AdnKronos Salute sul caso che nel 2014 lo ha visto per un breve periodo di tempo fra i protagonisti.
Ferrari era stato infatti in un primo momento indicato come presidente del secondo Comitato di esperti chiamato allora dal ministero della Salute a valutare il protocollo Stamina ai fini di un’eventuale sperimentazione. Nomina che non avvenne mai, e infatti il pool di esperti che con le sue conclusioni mise di fatto la pietra tombale sul metodo proposto da Davide Vannoni fu presieduto da Michele Baccarani, ematologo dell’università di Bologna. Ferrari prova a spiegare perché, a suo avviso, sul caso Stamina “hanno perso tutte le parti”.
Partendo da una premessa: “Il primo caposaldo, e non si discute, è che tutti i farmaci che vengono portati in clinica devono seguire le regole dell’omologazione – precisa – Quelli di Stamina, come anche altri, non le hanno seguite. Quindi secondo me non era pensabile che venisse distribuito come farmaco quello che facevano loro”. Fatta questa premessa, e distogliendo l’obiettivo dal caso specifico in questione, Ferrari aggiunge: “C’è anche un secondo caposaldo, ed è che la scienza si muove molto in fretta e le regole dell’omologazione, che sono naturalmente e giustamente più lente, devono accogliere le istanze della scienza nuova. Quindi le regole stesse devono essere in continua evoluzione e per evolversi devono essere in continuo contatto con chi spinge più in là i confini della scienza e, parte più importante, con le persone per le quali la scienza viene spinta, che sono i pazienti”.
“Io – continua Ferrari, che a Houston Methodist gestisce oltre mille clinical trials e protocolli clinici in molti settori della medicina, dal cancro alla neurologia – sono fondamentalmente convinto che la medicina è una professione di servizio e che mai può essere disgiunta da quello che, secondo i principi di autodeterminazione, il paziente desidera ricevere. E’ fatto obbligo naturalmente all’ente statale far sì che quello che il paziente riceve sia garantito come sicurezza e una misura minima essenziale di efficacia, in modo che non ci sia spazio per imbonitori e venditori di fumo. Questo è vero, ma è vero altrettanto che deve essere il paziente il motore fondamentale del processo”.
In Italia, dunque, per lo scienziato “è importante pensare a una ristrutturazione dei processi di omologazione, come sta già capitando negli Stati Uniti. Quando lo dissi ai tempi di Stamina, si levarono in aria i forconi e le torce contro di me. Perché qualcuno ha voluto in maniera incorretta farmi dire che non andavano seguite le regole dell’omologazione. Ma non era quello che io intendevo. Certamente, ribadisce, le regole vanno seguite: fase I, fase II, fase III, il tutto basato sulle Gmp (le Good Manufacturing Practices). Sono le cose che vanno fatte. Ma negli Stati Uniti, rispondendo alle istanze della medicina più contemporanea, stanno già cambiando le cose sui meccanismi di omologazione. Ci sono le cosiddette ‘right-to-try law’, leggi che in molti Stati Usa permettono ai pazienti il diritto di provare. Sono declinate in maniera diversa, però rispondono alla stessa esigenza, cioè l’autodeterminazione del paziente”.
Le dinamiche dell’omologazione, incalza Ferrari, “devono cambiare con l’evolversi della scienza e delle dinamiche sociali. Il principio fondamentale è che tutto deve seguire naturalmente le codificazioni di legge. Ma al servizio del paziente, e questa è la parte che talvolta si dimentica. Bisogna invece trovare il modo per lavorare insieme, senza scordarsi che siamo servitori, che il Governo è servitore, lo scienziato è servitore, e lo sono la casa farmaceutica e l’ospedale. Ricordando questo, diventa tutto più facile”.
Lo scienziato invita a guardare “a come il mondo investe nella ricerca. Se siamo al servizio della comunità, allora dobbiamo fare le cose che sono più utili per i pazienti. Tanta scienza di base che si produce è bella, ma è tutta necessaria? C’è un giusto bilanciamento tra la ricerca di base e quella traslazionale? La scelta che ho fatto io”, come presidente e Ceo dello Houston Methodist Research Institute, “è stata di selezionare. Ho 1 milione di pazienti all’anno, passo il mio tempo portando la coperta alla paziente che sta partecipando alla sperimentazione clinica. La mia attività è per lei che sta morendo, non per la scienza fine a se stessa. Ci sono, per fortuna, le università che fanno la loro ricerca”.
Il sistema Paese, riflette, “si trova davanti diverse strade e deve scegliere. Ci si può domandare: vogliamo mettere veramente il 100% delle risorse sulla ricerca di base e zero per quella traslazionale? Oppure possiamo costruire un network di Gmp facilities in tutto il Paese, in modo che se arriva una buona idea dall’università di Palermo, o da quella di Bologna, c’è un sistema nazionale di riferimento? Io questo dicevo ai tempi di Stamina: cogliamo l’occasione, la medicina sta cambiando”.
Ci sono settori nuovi che stanno nascendo, argomenta lo scienziato, “e che ci mettono 30 anni ad arrivare in clinica. Se l’Italia si sveglia, costruisce un network di Gmp facilities e incanala anche solo una percentuale della ricerca, non dico il 100% ma il 20-30%, secondo me di cose come quelle che ho fatto io negli Usa ne nascono a centinaia”, conclude lo scienziato facendo riferimento a quanto realizzato al Methodist per portare alla sperimentazione clinica un nuovo farmaco contro il tumore al seno metastatico (finito di recente anche su ‘Nature Biotechnology’). Un generatore di nanoparticelle, “in grado di arrivare al cuore del tumore e di far sì che sia il cancro stesso a fabbricarsi un ‘nanocoltello’ col quale autodistruggersi”. Trattandosi di un farmaco non assimilabile agli altri esistenti, Ferrari si è impegnato per costruire una Gmp facility su misura, certificata e approvata dalla Fda. Totale investimento: “Solo 20 milioni di dollari, non 3 miliardi”. Fra pochi mesi partirà il trial con i pazienti.