Home Nazionale Sanità: il sondaggio, 76% strutture ha piano prevenzione aggressioni

Sanità: il sondaggio, 76% strutture ha piano prevenzione aggressioni

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Roma, 5 ott. (AdnKronos Salute) – Nel 76% delle aziende sanitarie italiane è stato elaborato un programma di prevenzione specifico per le aggressioni e il 50% ha avviato accordi con forze dell’ordine pubblico o altri soggetti (Polizia, Comune, Polizia municipale/provinciale, Prefettura) in grado di fornire un supporto per identificare le strategie atte a eliminare o attenuare la violenza nei servizi sanitari. E’ quanto emerge da una survey che Federsanità Anci ha somministrato a un gruppo rappresentativo di aziende sanitarie e ospedaliere con l’obiettivo di monitorare, a 10 anni dall’emanazione, l’attuazione della raccomandazione del ministero della Salute 8 del novembre 2007 sulla prevenzione degli atti di violenza a danno degli operatori sanitari.
Sessanta aziende sanitarie coinvolte, delle quali 25 aziende sanitarie locali, 24 ospedaliere, 8 Irccs e 3 strutture private accreditate, distribuite in maniera equilibrata sul territorio: al Nord 34 strutture, al Centro 16, tra Sud e Isole 10. I risultati sono stati resi noti oggi dalla presidente di Federsanità, Tiziana Frittelli, e dal presidente della Fnomceo, la Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri, Filippo Anelli, nel corso del 75esimo Congresso nazionale della Fimmg, la Federazione italiana dei medici di medicina generale.
Il dato che emerge con forza è quello relativo alle strutture e alle figure professionali su cui sono concentrati maggiormente gli atti di violenza: le aree di emergenza, i servizi psichiatrici, i Ser.T, la continuità assistenziale e i servizi di geriatria i settori più colpiti; medici, infermieri e operatori socio-sanitari le figure coinvolte dagli atti di violenza sia verbale che fisica.
“L’idea di sottoporre alle aziende sanitarie questa survey – spiega Frittelli – nasce da una sinergia messa in atto con Fnomceo con l’obiettivo comune di monitorare lo stato di attuazione della normativa esistente in materia, e dell’eventuale necessità di procedere a un aggiornamento legislativo. Infatti, alcune aziende sanitarie hanno adottato di propria iniziativa accorgimenti che hanno reso le sedi sicure e a prova di aggressione, spesso in collaborazione con enti locali e le forze dell’ordine. Per questo abbiamo pensato di censirli ed elaborare indicazioni concrete da mettere a disposizione del management aziendale. Inoltre, in questa raccolta di informazioni e indicazioni, abbiamo pensato di coinvolgere la catena del rischio delle aziende sanitarie, dai responsabili del Servizio di prevenzione e protezione ai risk manager, perché siamo convinti che spesso le ragioni di alcune situazioni, e le loro possibili soluzioni, siano connesse tra loro”.
In generale, il dato che emerge è la volontà delle aziende di adeguare le strutture a quanto raccomandato 10 anni fa. Con l’aumento delle aggressioni ai professionisti che operano in sanità, le strutture stanno cercando di porre rimedio a una modalità di aggressione che ha varie sfaccettature nell’agire e nei motivi. Motivi che troppo spesso hanno a che fare con il tempo e gli spazi dedicati, o non dedicati, o con le conseguenze infauste di atti sanitari.
In sintesi, si potrebbero rileggere le risposte fornite dalle aziende come tempo e spazio più o meno adeguati alle mutate esigenze e aspettative dei cittadini. Oltre, ovviamente, a una mutata percezione di quanti esercitano la professione sanitaria. Si è passati da una fiducia totale nei tempi e nelle capacità del medico a una pretesa di attenzione e di guarigione. Anche quando queste non sono né possibili né immediate.
“E’ vero – commenta Anelli – questi episodi sono anche il frutto di una cultura generalizzata secondo la quale la sanità è vista alla stregua di un supermarket, la salute come un bene di consumo e la ‘medicina dei desideri’, quella in grado di curare tutto, di spingersi oltre i limiti biologici, ha ormai preso il posto della ‘medicina delle cure’. Ecco allora che il medico che non fornisce la prestazione pretesa, non importa che sia o meno la più appropriata, diventa il nemico da combattere. E non conta se quel nemico è lì per te, per rispondere l’ennesimo ‘sì’ alla tua richiesta d’aiuto. Ma se una certa rischiosità è l’effetto collaterale della nostra quotidiana attività di prossimità e vicinanza ai disagi delle persone e delle comunità, spesso in qualità di primi se non unici testimoni di diritti elusi e negati – precisa – questo non ci esime, non esime nessuno di noi (medici, direttori generali, istituzioni, politici) da mettere in atto provvedimenti efficaci per gestire e abbattere il rischio. La sicurezza degli operatori è infatti il primo presupposto della sicurezza delle cure”.
Dai dati si evince che l’impatto con soggetti violenti in sanità è probabilmente inevitabile: il fatto stesso che le strutture siano aperte al pubblico (il Pronto soccorso h24) non riesce a impedire azioni di questo tipo. Quello che invece stupisce la categoria è l’incremento delle azioni violente nei confronti degli operatori senza alcun freno, neanche quando queste azioni possono rallentare il processo di cura per cui è stato richiesto l’intervento dei sanitari (come accade al blocco delle ambulanze).
Secondo i promotori dell’indagine, le risposte fornite dalle 60 aziende sanitarie possono essere una buona base per riflettere su cosa è stato fatto e, soprattutto, su cosa si può fare ancora per limitare questa deriva violenta.