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Guardare l’arte – ovvero come Millennials e Z generation praticano la sociologia visiva

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Guardare l’arte – ovvero come Millennials e Z generation praticano la sociologia visiva

Fare sociologia visuale significa attraversare con gli occhi i contesti più abituali del nostro quotidiano e poi capire cosa ci dicono. Significa guardare come oggetto di ricerca ciò che ci circonda e vedere nelle cose, nei corpi o nei luoghi il posto delle immagini.

La rete e il virtuale aggiungono un ulteriore elemento, assicurandoci che è il visivo a dettare legge. È la vista a dirci che i luoghi sono anche contenitori di suono, rumori, odori e fisicità. È l’ambito del visivo ad assicurarci cioè che tutto l’universo virtuale da noi frequentato abitualmente compone una lingua con la quale possiamo e dobbiamo comunicare. Le immagini a questo punto sono solo parti o elementi fondamentali di un discorso che possiamo creare, leggere e capire.

Lavorare con e sulle immagini nella società dell’immagine quindi non è solo un imperativo, ma è la vera sfida del domani. Potremmo addirittura dire che, interpretare bene un’immagine, sia “necessario” a diversi livelli: intanto per renderci più accessibile la conoscenza della società nella quale viviamo, poi per comprendere noi stessi e le nostre reazioni e infine per formare professionisti sempre più attenti a questi dati sociologici da abbinare alle loro conoscenze.

Inutile dire quanto siano essenziali anche nella didattica. Insegnare avvalendosi di un solido apparato iconografico è determinante per avvicinarsi alle esigenze di generazioni di ragazzi dalle caratteristiche visive molto precise. La sociologia visuale quindi si è accorta della generazione dei Millennials e questi ragazzi, chiamati così perché sono diventati maggiorenni con l’arrivo dell’anno 2000, la sociologia visuale magari non sanno cos’è ma praticamente la mettono in atto. Questa generazione e quella che informalmente viene chiamata “generazione Z” (cioè coloro che sono nati nel 2000) hanno acquisito una serie di competenze che gli altri – cresciuti senza i nuovi strumenti – non aveva.

Millennials e Z hanno ad esempio, evidenti capacità di leggere le immagini (soprattutto quelle visive) e sono intuitivi comunicatori visuali. Hanno una grande competenza visivo-spaziale, legata al fatto che i (video)giochi li hanno abituati a integrare il virtuale con la realtà. Sono ragazzi insomma, che apprendono meglio attraverso la scoperta e l’invenzione personale e quindi non amano “la spiegazione”. Sono ragazzi alla ricerca di partecipazione e la preferiscono rispetto alla lezione frontale.

Lasciando stare le loro capacità di muoversi e di spostare rapidamente la loro attenzione da un compito a un altro, questi potenziali “sociologi visuali” sono in grado di rispondere rapidamente agli stimoli e si aspettano rapidi feedback senza i quali interpretano i fatti in modi diversi rispetto agli adulti – a volte in maniera più adeguata al contesto, libera e razionale. Provare per credere.

In termini visivi la loro visuo-scrittura dimostra che abbiamo a che fare con persone molto più alfabetizzate visivamente rispetto alle generazioni precedenti perché la loro capacita di muoversi tra il virtuale e il reale si trasferisce nella produzione di nuovo sapere e conoscenza. L’abitudine allo schermo ha potenziato la visibilità e dunque essi traggono profitto dalla varietà di ipertesti, immagini, suoni e scrittura composti in un tutt’uno a favore di narrazioni, anche molto complesse.

La sociologia visuale – intesa come quella disciplina che guarda con attenzione le abitudini comunicative modificate dall’immagine – sta guardando con favore quanto queste generazioni siano orientate all’uso delle immagini.

Fruite, condivise, copiate o salvate sul drive, le immagini vengono gestite dai ragazzi in modo naturale ed efficace. Sono “professionisti” interessati all’immagine in movimento da leggere in modi sempre più multimediali su schermi grandi e piccoli. Portatili e altri dispositivi di registrazione e di riproduzione video poi, stimolano la loro creatività, permettendo loro di azzardare con il collage sonoro o con il montaggio e la manipolazione video mettendoli in una favorevole condizione ad apprendere con facilità.

La sociologia visuale quindi non fatica a vedere quanto l’uso di tecniche visuali sia determinante per chi intenda afferrare l’attenzione degli studenti, o semplicemente focalizzare la propria concentrazione e generare interesse. Questi ragazzi sanno che l’immagine è in grado di eccitare o rilassare il cervello e che può essere sfruttata per l’esercizio di apprendimento. Siamo noi adulti a non essere pienamente coscienti del fatto che l’immagine eserciti quel potere anche su di noi.

Bisognerebbe forse riflettere sulle loro e le nostre capacita critiche e soffermarsi su quelle che incentivano e migliorano il loro atteggiamento verso i contenuti, favorendo la comprensione e la creatività.

Per secoli l’immagine è stata strumento per la cooperazione. Ha ispirato e motivato le persone. La storia dell’arte ce lo assicura, soprattutto quando ci spiega come siano state utilizzate (da Chiesa o Stato poco importa) per impostare uno stato d’animo appropriato per il committente. Quello che le giovani generazioni stanno facendo con il loro modo orizzontale di fruirle è ciò che potremmo definire il risultato di una “nuova immaginazione sociologica”. Un’immaginazione mai vista. Anzi, un rapporto con le immagini così inedito e complesso, da rendere difficili ogni tipo di previsioni. Un piccolo margine (forse) per sperare sugli altri canali comunicativi oltre la parola.