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“E io mi gioco la vita”

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“E io mi gioco la vita”
Marco Becattini
“Ero il primogenito di una famiglia tranquilla. Padre operaio, madre commerciante. I soldi non mancavano ma nemmeno avanzavano. La logica era ferrea: il denaro serve per mangiare e poi per le medicine. Quello che avanza non si può assolutamente sciupare. Quando cominciai a lavorare e a guadagnare, mi dissi una cosa: con i miei soldi ci faccio quello che mi pare”.

Gaetano sta per compiere 50 anni, non gioca da 9 e da 7 è il Presidente di “Mi rimetto in gioco”, associazione di persone che stanno  smettendo o che hanno chiuso con il gioco.
“E tra quello che mi pare c’era anche il gioco. La mia prima volta fu ad una slot al bar con gli amici. Poi al videopoker. I primi soldi che andarono via furono 5mila lire. Quello fu il primo giorno dei successivi 20 anni. Mi affezionai al gioco e divenne un’abitudine. Prima una volta al mese, poi una volta alla settimana, poi 1 volta al giorno. In quelli lavorativi mezz’ora o un’ora. L’accelerazione c’è quando vinci. Una volta con 20mila lire incassai  1.800.000 lire. Allora non li guadagnavo nemmeno in un mese: il mio stipendio era di 1 milione e 200mila lire”. La vincita rafforza la dipendenza.

“Si inizia con una vincita e con un’esperienza sociale divertente – commenta Marco Becattini, Direttore del Serd della Asl Tse. Magari si vince e il pensiero è: ho vinto poco perché ho giocato poco. Ma se punto di più? Si parte con qualche euro, con un gratta e vinci, con una leva abbassata della slot. Pochi euro e in poco tempo si arriva ad un indebitamento medio del giocatore patologico che oscilla tra i 20.000 e i 30.000 euro. Questa non è la cifra di quanto ha perso ma solo il “buco” che ha creato dopo aver bruciato i risparmi, la casa, l’auto  e ogni oggetto vendibile”.

Gaetano non ha mai giocato grandi cifre. “Sono sempre rimasto sulla linea di galleggiamento. Il mio conto corrente oscillava tra 1.000 euro sopra e 1.000 euro sotto. Non ho mai chiesto prestiti, non sono mai andato dagli strozzini. Ho sempre giocato alle slot, non ho quasi mai scommesso e mai mi sono affacciato al gioco on line”. La tecnologia aiuta ad aumentare le perdite. “Una volta alla slot ti giocavi 1 euro alla volta, adesso le nuove macchine accettano banconote fino a 500  euro. Ci puoi lasciare 1.000 euro in una sola ora”. A quel punto uno abbraccia la slot pur di non smettere e recuperare la perdita.
“Si realizza una vera e propria distorsione cognitiva – spiega Becattini.

Il giocatore non si stacca dalla leva della slot anche se il barista deve chiudere. Chiede tempo per un ultimo eterno tentativo. Pensa che i soldi dentro la macchina siano i suoi e non ha del tutto torto.  Dentro ci sono tutti quelli che ha portato da casa e che non riporterà né quella sera né mai. La moglie e i figli gli chiederanno conto e lui non potrà affrontare quella domanda. Non resta che rimanere incollati alla macchina in attesa del colpo vincente che deve arrivare. Alla fine chiede al barista di spegnere e sigillare la slot perché nessun altro ci possa giocare prima che lui torni il giorno dopo: quei soldi sono i suoi e un altro non può portarli via”.

Gaetano, nella sua lunga vita di giocatore, ha cercato di darsi alcune regole: “quando è nata mia figlia, non ho smesso di giocare ma dai soldi disponibili ho tolto quelli che servivano per lei: dall’asilo ai pannolini. Ma il resto era per me e quindi per il gioco. Mi sono separata dalla madre di mia figlia: forse sarebbe accaduto lo stesso. Forse”.
Becattini spiega il punto di arrivo del giocatore patologico: “il divertimento è finito da un pezzo. Non si gioca per trascorrere il tempo ma solo per il bisogno di rimettere le cose a posto. Non c’è più la passione per il gioco ma l’ansia e il dolore di dover sistemare i danni fatti. Chi ha famiglia, ha bruciato i risparmi di casa, i soldi per il mutuo, l’accantonamento per l’università dei figli. E tutto questo con la menzogna: la moglie e i figli spesso non sanno nulla e il bisogno di “rimettere le cose a posto” diventa anche una necessità non solo economica ma l’unico modo per evitare che tutti i rapporti, già sfilacciati, si rompano definitivamente. Finisce la vita di relazioni: non solo non ha più niente ma non ne parla con nessuno condannandosi alla solitudine e alla menzogna. Andrà avanti fino a quando – nella sua illusione – non avrà sistemato tutto. Si nasconderà da tutti fino a quando non avrà vinto la cifra sufficiente a riparare tutti i danni che ha fatto”.

Ogni giocatore ha la sua storia. “Come gli altri continuavo a giocare e mentire – racconta Gaetano. Avevo raccontato bugie ai miei genitori e poi alle mie compagne e ai miei amici. Alla fine la persona con cui stavo mi estorse la verità e mi fece confessare che giocavo. E, soprattutto, mi fece la domanda giusta: vuoi veramente continuare a vivere così? Fu la botta che aspettavo e che mi serviva. Mi aveva parlato del Serd e le chiesi di fissare un appuntamento”.
Ad aiutare Gaetano  contribuì una vincita: lo aveva indotto ad iniziare e lo stava facilitando a smettere. “Due giorni dopo quella domanda tornai a giocare e con 20 euro ne vinsi 1.500. Chi giocava vicino a me disse le frasi di rito ma a me, quella vincita, non fece né caldo né freddo. Mi accorsi che non avevo più nemmeno il giusto della vincita: era proprio l’ora di smettere”.
Ecco l’arrivo al Serd. “A volte il giocatore ci viene da solo, più spesso lo portano i familiari – spiega Becattini. Qualche volta i servizi sociali quando sono stati coinvolti. Il lavoro del medico è di rassicurare il giocatore che può smettere ma deve interrompere il gioco, non avere più segreti e rinunciare a gestire il denaro. Questo passa alla famiglia o, in casi particolare, il Tribunale nomina un amministratore di sostegno. La scelta che deve fare è opposta quella che ha fatto fino a quel momento: deve passare dal “continuo a giocare perché vincerò” allo “smetto di giocare perché non vincerò mai”.  Quindi deve ammettere di essere un giocatore, di avere una dipendenza e di non essere semplicemente una persona sfortunata. Deve poi coinvolgere le persone che lo possono aiutare a non giocare attraverso una diversa gestione del tempo e del denaro. Non è facile perché le persone vicine sono arrabbiate, stanche e impaurite: con il denaro che è stato sottratto anche a loro, hanno “comprato” menzogne e disperazione. Di norma arrivano da noi – sottolinea Becattini – quando ormai hanno perduto tutto. Un paziente aveva accumulato 170mila euro di debiti. Il Serd ha almeno un anno e mezzo di presa in carico. Il paziente non solo deve smettere di giocare ma anche abbandonare l’idea segreta di smettere e poi riprendere. Se smetto una volta, posso smettere quando voglio: bella frase ma sideralmente lontana dalla verità. Le ricadute sono facili e molto dolorose perché si perde fiducia e coraggio”.
Dal gioco si può uscire. “Quando si smette di giocare – ricorda Gaetano – si riacquista lucidità e ci si riappropria di emozioni che ci eravamo dimenticati o che non avevamo mai vissuto. Anche le cose semplici acquistano un altro valore: nel 2015 mi sono comprato un’auto e l’ho fatto con un assegno. Niente rate: ero stata capace di risparmiare. I rapporti con mia figlia, che oggi a 13 anni, sono sempre stati buoni ma sono migliorati: mi considera un punto di riferimento e ne sono orgoglioso. La sala giochi dove andavo era a 300 metri dal mio luogo di lavoro. Uscivo e avevo proprio un bivio: a destra la sala giochi e a sinistra la mia casa. Per un anno e mezzo ho girato a sinistra e alla fine ho potuto anche cambiare strada. Il periodo della vergogna era finito”.

Giocatore patologico / Il profilo medio
Il profilo medio del giocatore patologico ha molte facce. Non ci sono differenze d’età, di genere, di occupazione. Possono giocare tutti. Età tra i 40 e i 50 anni, lavoratore dipendente, sposato con figli, ama soprattutto le slot. Le donne sono anch’esse tra i 40 e i 50, senza lavoro al di fuori della casa, una predilezione per il bingo. Ci sono anche i giovani e i ragazzi che preferiscono il poker on line. Gli anziani si orientano verso il gratta e vinci. Il pensionato spera di concedersi qualcosina in più e si compra un pacchetto di cartoline lasciando la pensione in tabaccheria. L’idea è che ci sia un modo facile di vincere. Le illusioni che sostengono la dipendenza: “ho quasi vinto, ho recuperato quello che ho puntato, gioco in pari”. Il giocatore non si ferma mai, non c’è mai una vincita abbastanza grande da indurlo a smettere. Il giocatore non accetta l’idea di perdere perché scambia la possibilità con la probabilità. Pensa che se gioca vincerà, prima o poi. Il gioco, in realtà, è un perdita di denaro, di emozioni e di storie di vita.

I soldi in gioco
Quasi 900 milioni di euro. Una montagna di soldi. Non è destinata ad opere pubbliche, a ospedali o a servizi per i cittadini. E’ quanto si gioca – letteralmente – la Toscana meridionale in un anno. Tutti, dal neonato al centenario, ci giochiamo 1.034 euro a testa. Quasi mai vinciamo, quasi sempre perdiamo. C’è certezza da dove escono i soldi: dalle nostre tasche. C’è incertezza – tolti quelli che vanno allo Stato – in quali tasche finiscano. Tanto da alimentare i peggiori sospetti.