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Sindrome di Omenn: un aiuto dall’ingegneria genetica

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Sindrome di Omenn: un aiuto dall’ingegneria genetica

ITALIA – Ora per i bambini affetti dalla Sindrome di Omenn c’è una speranza di guarigione in più, grazie al modello animale della malattia realizzato, mediante tecniche di ingegneria genetica, nei laboratori del Reparto Genoma Umano dell’Istituto di tecnologie biomediche (Itb) del Consiglio nazionale delle ricerche di Milano.
Il risultato è l’ultimo prodotto del Progetto Genoma Umano che, dopo aver stabilito la sequenza di tutto il Dna dell’uomo, si dedica ora alla comprensione del suo funzionamento.
Finanziata dal Progetto Nobel della Fondazione Cariplo e dal Comitato Telethon e condotta in collaborazione con altri enti di ricerca, tra cui l’università di Brescia, il Telethon Institute of Gene Therapy del San Raffaele di Milano e l’Istituto di Ricerca Biomedica di Bellinzona (Svizzera), la ricerca apre nuove prospettive nella comprensione di questa patologia.
“La sindrome di Omenn (SO)”, spiega Anna Villa, la ricercatrice dell’Itb-Cnr che ha diretto lo studio, “è una immunodeficienza grave e appartiene al gruppo delle SCID (Severe combined immunodeficiencies), un insieme di patologie che hanno in comune un difettoso funzionamento dei linfociti B e T. Si tratta di due classi di cellule fondamentali perché sovrintendono alla risposta immunitaria che permette all’organismo di riconoscere i patogeni che hanno precedentemente infettato l’organismo, eliminandoli rapidamente e consentendo così all’individuo di far fronte a tutti gli attacchi provenienti dall’ambiente esterno. La maturazione di queste cellule è legata al buon funzionamento di numerosi geni, tra cui i geni RAG1 e RAG2, che sono alterati nella Sindrome di Omenn. Per ricreare nel topo lo stesso difetto genetico presente nei pazienti affetti da questa patologia ci siamo avvalsi di tecnologie di ricombinazione genetica. Avere a disposizione un modello animale ci consentirà di capire come nasce il difetto immunologico alla base della SO e di testare nuove terapie”.
Descritta per la prima volta nel 1965 da G.S. Omenn, la SO si manifesta nei primi mesi di vita come un’immunodeficienza classica: il neonato è colpito da numerose infezioni, presenta disidratazione, malnutrizione e diarrea che ne ritardano la crescita, come avviene in tutte le SCID. A questi sintomi si accompagnano però anche fenomeni di autoimmunità: ingrossamento di fegato e milza (epatosplenomegalia), ingrossamento dei linfonodi (linfoadenopatia) ed eczema cutaneo. La malattia non trattata porta a morte certa nei primi anni di vita e l’unico intervento possibile è il trapianto di midollo con cellule di donatori istocompatibili, trapianto che deve essere effettuato precocemente, possibilmente prima della comparsa delle complicanze di tipo autoimmune. E’ facile comprendere quindi l’importanza del modello animale realizzato dall’Itb-Cnr, in grado senz’altro di chiarire la patogenesi dei sintomi autoimmuni e di comprendere come si stabiliscano.