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PCL e il Tibet

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PCL e il Tibet

"Le posizioni del PCL sulla questione cinese in generale e tibetana in particolare sono state espresse pubblicamente in queste settimane in diverse interviste e prese di posizione del Partito e del nostro candidato premier, Marco Ferrando. Rendendoci conto che comunque queste interviste e questi comunicati non sono state spesso ripresi dagli organi di stampa (per usare un eufemismo), riprecisiamo come da vostra richiesta alcune posizioni del PCL.

1) Il Partito Comunista dei Lavoratori, partito che ha nella sua matrice fondativa l’antistalinismo e la battaglia contro le degenerazioni burocratiche postrivoluzionarie, si è sempre battuto contro i “Laogai”, anche prima della risoluzione del Parlamento italiano. Come nella nostra tradizione sempre è stata presente una battaglia contro gli universi concentrazionari dello stalinismo, più o meno ortodosso, da /Vurkuta/ a /Goli Otok/.

Anche perché molti sono i compagni/e della nostra tradizione politica che hanno vissuto sulla propria pelle la realtà di questi campi di concentramento, vecchi e nuovi, battendosi contro lo stalinismo anche quando questa era incensato da tanti socialdemocratici oltre che da molti che oggi fondando il PD. Come nella nostra tradizione politica è sempre stato evidente il carattere stalinista dell’esperienza cinese e maoista, anche quando questa era sostenuta e ripresa da tanti che oggi magari militano in Comunione e Liberazione.

E tanto più oggi ci battiamo contro la repressione cinese, quando questa da elemento stalinista di controllo sociale della casta di partito diventa strumento di oppressione di classe in un nascente capitalismo cinese, andando a colpire operai e contadini che lottano solo per vedersi riconosciuti i propri diritti sindacali, un salario un occupazione un lavoro.

Ma la nostra battaglia di ieri contro le degenerazioni staliniste e di oggi contro una repressione che è anche strumento di ricostruzione di un modo capitalista di produzione in Cina, è sempre una battaglia per uscire a sinistra dallo stalinismo, per proseguire l’esperienza rivoluzionaria costruendo una democrazia consiliare, in cui il potere sia mantenuto dalla classe lavoratrice per un progetto di trasformazione socialista della società.

2) Non è il governo della repubblica Popolare Cinese ha tenere in ostaggio tutte le istituzioni internazionali. Sono tutte le istituzioni internazionali, a partire dall’ONU e dalle sua agenzie per arrivare al WTO o alla WB, che sono state costituite con statuti, ordinamenti e strutture organizzative antidemocratiche, centrate come sono sull’asse dei vincitori del 1945. Non delle organizzazioni democratiche quindi, ma una nuova forma di regolazione delle egemonie mondiali da parte delle principali potenze economiche e militari, uscite come tali dai 30 e più anni di guerra tra l’inizio del secolo ed il cosiddetto secondo conflitto mondiale. Il potere di veto dei cinque “grandi” nel Consiglio di sicurezza dell’ONU, ad esempio, non è che la traduzione giuridica di questo stato di cose e di questi rapporti di forza. Non a caso la Cina è stata inserita nei primi anni 70 in questo ristretto club, dopo le partite di ping pong ed il viaggio di Nixon in Cina, utile ad un nuovo riequilibrio della politica statunitense nel suo processo di continuo isolamento dell’Urss. Ed infatti praticamente mai l’ONU ha giocato un ruolo progressivo o positivo nelle crisi internazionali, dalla Corea al Bangladesh, dall’Irak alla ex Yugoslavia. O è stato docile strumento delle politiche imperialiste o è rimasto congelato nel gioco dei veti reciproci fra grandi potenze.

E di conseguenza pensiamo che non sia possibile condurre nessuna azione per ridurre questo potere “d’intesa con i paesi democratici”, perché proprio i principali paesi democratici (Francia, Usa, Gran Bretagna) detengono oggi questo potere e non intendono minimamente rinunciarci. Anzi, loro per prime lo utilizzano o minacciano di utilizzarlo ogni volta che l’ONU o altri organismi internazionali interferiscono nelle loro politiche.

Quindi, come dire, alla vostra domanda è impossibile rispondere in quanto fate nel testo due affermazioni, dando per scontata che da una consegua l’altra, che per noi sono in contrapposizione: cioè nel momento in cui affermate giustamente che la Cina ha un potere di ricatto nella diplomazia mondiale, per difendere sè ed i suoi protetti, affermate contemporaneamente che i paesi democratici potrebbero/dovrebbero agire per limitarlo. Ma questa conseguenza per noi non esiste. Anzi. Se e quando i “paesi democratici” si battono contro il “potere di ricatto” della Cina non è per difendere e applicare un principio di regolazione internazionale, ma per difendere ed applicare i propri interessi specifici ed il proprio potere di ricatto. Potere di ricatto che magari dispiegano completamente, anche sul piano militare, dentro e fuori i confini politici dell’ONU, proprio nel conflitto contro questo o quest’altro “asse del male”, contro questo o quest’altro “potere di ricatto” in quel momento contingente non conforme ai loro interessi. Così ci sono regimi e dittatori che oggi difendono la democrazia e domani sono nazisti ricattatori o narcotrafficanti (da Noriega a Saddam Hussein). Così oggi una strategia per costruire la democrazia in Medio Oriente viene attuata a partire da un regno teocratico con potere assoluto della famiglia reale e repressione religiosa interna (l’Arabia Saudita) e da una dittatura militare che incarcera e tortura ciclicamente ogni opposizione politica più o meno radicale presente nel paese (l’Egitto). E cito solo gli esempi che coinvolgono gli USA in quanto principale paese democratico e potenza mondiale, ma altrettanto si potrebbe dire sulle politiche Francesi in Costa d’Avorio, in Ciad od in Ruanda. O di quelle inglesi nelle Falkland, in Irlanda del Nord, ecc ecc.

La battaglia contro i poteri di ricatto della Cina, per il Sudan come per qualunque altro paese, non è modificabile d’intesa con i paesi democratici. E questo tanto più oggi e ancor più domani, dal momento che sempre più è evidente il ruolo rilevante che la Cina gioca negli equilibri e nella sopravvivenza dell’attuale mercato mondiale: il peso che oggi formalmente detiene la Cina nell’ONU e negli altri organismi è solo destinato a crescere, accompagnato dalle armi (metaforiche e reali) che il nuovo capitalismo cinese si sta dando: come non è un semplice appoggio tra regimi quello che lega la Cina al Sudan, ma vera e propria proiezione economica e militare, a partire dalla Cnoc e dalle altre compagnie petrolifere cinesi per finire alle diverse migliaia di soldati cinesi che stazionano intorno agli oleodotti del paese. Una proiezione che, seppur ridotta per dimensioni e significato, è difficilmente distinguibile in via di principio da quella statunitense in Irak od in altri paesi del mondo.

Il massimo impegno del PCL, al contrario, è dedicato alla costruzione di un modo di produzione e di un sistema internazionale realmente democratico, che a partire dal riconoscimento all’autodeterminazione e dalla massima trasparenza delle relazioni internazionali possa rappresentare le diverse popolazioni della Terra. E noi questo sistema lo chiamiamo socialismo.

3) Il PCL riconosce il diritto all’autodeterminazione di tutti i popoli, senza distinzioni di interesse geopolitico od economico. Quindi ci siamo battuti e ci battiamo, nel nostro piccolo e nelle nostre possibilità, sostenendo il diritto all’autedeterminazione del pololo Tibetano, Mongolo, Uiguro e Mancese.

Come ci battiamo per il diritto all’autodeterminazione dei ceceni, dei palestinesi, dei kurdi, del popolo basco e di quello corso, di quello altoaltesino come di quello sardo, ecc ecc. E la lotta per il diritto all’autodeterminazione, a nostro parere, deve essere condotta in primo luogo da quei popoli, con ogni mezzo che ritengano necessario, senza che questo possa mettere in discussione la nostra solidarietà.

A Lahsa saremmo stati con i ragazzi sulle barricate e negli scontri di piazza, non solo con chi invoca la non violenza e le pressioni internazionali per risolvere la questione “sul piano diplomatico” (che per esperienza vorrebbe dire trovare l’accordo e la quadra tra i diversi interessi delle grandi potenze, siano questi più o meno simili agli interessi ed alle volontà delle popolazioni coinvolte).

Una lotta per l’autodeterminazione che per noi può diventare un percorso di liberazione sia dal colonialismo esterno sia da quello “interno”, cioè una lotta di liberazione da quei rapporti sociali che sottomettono la maggioranza della popolazione, siano essi di carattere “feudale” e “precapitalistico” come in alcuni di questi territori, siano essi pienamente capitalisti come in molti territori europei. Una lotta contemporaneamente di liberazione nazionale e di rivoluzione politica interna, una “rivoluzione permanente” per una società socialista contro borghesie /compradore/ e borghesie nazionali, apparati militari, organizzazioni teocratiche e partiti religiosi che spesso negli ultimi anni si sono espansi in molte di queste società. Contro il fondamentalismo come contro gli intrecci tra strutture religiose e potere politico, qualunque matrice questi intrecci e queste politiche fondamentaliste abbiano: siano essi cattolici, islamici, indù o buddisti.

4) La “concorrenza sleale” del nuovo capitalismo cinese è esattamente identica alla “concorrenza sleale” che per molti anni ha retto il miracolo italiano e l’espansione capitalista degli anni 60 nel nostro paese.

Il punto non è aprire una nuova guerra protezionista, da scaricare sempre e comunque sulle frazioni più deboli dei lavoratori, siano essi italiani o cinesi. Guerra protezionista che, fra parentesi, è comunque uno dei più concreti sviluppi delle relazioni internazionali di fronte a noi, dettata dall’incipiente crisi americana e dalle conseguenti logiche economiche che da essa discendono, del resto anticipate dal fallimento del Doha Round.

Il punto è eliminare la logica economica della concorrenza, sia essa più o meno apertamente “sleale”, in quanto “sleale” lo è sempre nel modo di produzione capitalista, non essendoci nessun principio regolatorio di fondo dell’attuale apparato produttivo eccetto il profitto. Ed il conflitto che questo genera con i tentativi per tenerlo sotto controllo.

E' forse “leale” la concorrenza che l’Eni, o l’ENEL o la Fiat praticano oggi in Italia o nel mondo? E’ “leale” l’appoggio alle dittature praticato dall’Eni a Kasangian o nel delta del Niger? E’ forse “leale” l’accordo monopolistico da essa stretto per il controllo del metano in Italia? E quelli dell’Enel per le tariffe elettriche o, quando era proprietaria di Wind, di quelle telefoniche? E’ forse “leale” il risparmio che Fiat ha fatto in questi anni sulla sicurezza del lavoro, pagata anche con la recente morte a Melfi? O è forse “leale” l’utilizzo nella maggioranza degli stabilimenti italiani della Fiat di un sistema di controllo dei movimenti, il TMC2, che è stato dimostrato da USL e tribunali che aumenta esponenzialmente malattie e disturbi sul lavoro, dalle tendiniti all’artrite? E’ “leale” che per anni il sistema bancario italiano (a partire da Intesa) abbia considerato Telecom e Pirelli due entità economiche non collegate (quando così non faceva, ad esempio, la SECamericana), per non esser costretta a sommare i debiti delle due società e quindi, per l’attuale legislazione italiana, costringere Bancaintesa e soci al rientro del debito in Telecom? Ed è “leale” che praticamente nessun giornale, televisione, ente politico o morale abbia fatto una compagna di moralità pubblica ed economica su quella che allora era la principale impresa italiana per capitalizzazione?

Il punto diventa quindi per noi battersi contro questo modo di produzione, non sostenere l’una o l’altra parte nella loro competizione omicida. Siano cinesi od italiani i soggetti coinvolti.

5) Di nuovo, sembra che si sottolinei il carattere cinese di un problema (che certamente coinvolge la Cina), senza accennare o considerare la natura generale del problema. Molti altri paesi e realtà, il nostro compreso, hanno problemi nel “conoscere la provenienza di molti beni di consumo prodotti in “totale assenza di controlli igienici e sanitari”.

Il problema è quale politica di sostegno intendiamo dare ai nostri presidi di controllo sanitario, che tra parentesi proprio dall’Unione europea spesso ricevono pressioni per l’eccesso di controllo che praticano e vogliono praticare sulla carne o sui diversi altri prodotti. Non è l’unione europea che ha stabilito che si può chiamare cioccolato anche quello che ha meno del 30% di burro di cioccolato dentro, magari utilizzando invece come grassi l’olio di colza o “olii di vegetali vari”? E dall’Unione Europea che riceviamo partite di carne, pesce, verdure biologiche e non prodotte nei nuovi territori senza alcun controllo sanitario? Non è in Unione europea che si è diffusa per anni la “mucca pazza”, con il silenzio la timidezza la complicità di autorità pubbliche e sanitarie che subivano la pressione degli interessi dei grandi allevatori e delle aziende alimentari?

Non è in Europa che si sta assistendo ad una lenta ma progressiva diminuzione dell’età della pubertà? E questo quanto può essere collegato alla presenza di estrogeni e altro ormoni nel latte, nella carne, ecc ecc?

E la mozzarella campana? La diossina sarà entrata dalla spazzatura in questi giorni o sarà un problema di contaminazione decennale (se non più) di un territorio in cui, come molti servizi giornalistici e scientifici hanno dimostrato, non esiste controllo igienico o sanitario (non solo e non tanto nelle bufale e nelle sue mozzarelle, quanto nel latte materno, nel terreno, nell’aria che si respira e di conseguenza nei suoi prodotti).

Ed alla base, non c’è un sistema economico in cui la produzione del cibo e la sua commercializzazione è determinata dalla logica e dall’obbiettivo del profitto, ed in cui di conseguenza l’adulterazione dei prodotti è uno strategia praticata generalmente e diffusamente? Non siamo noi ad aver prodotto il vino al metanolo? Od i tedeschi negli annni 20/30 il “giallo burro” ed i conseguenti tumori intestinali? O le compagnie americane ad aver imposto commercialmente l’utilizzo dell’ammoniaca nelle sigarette, per incentivare la trasmissione nel sangue della nicotina?

La Cina (come i paesi del est europeo, come molti paesi africani ed asiatici) hanno il difetto di essere entrati “oggi” nel mercato mondiale della produzione alimentare ed utilizzare pienamente strategie di posizionamento nel “mercato” che le nostre imprese hanno conosciuto decenni fa e che tuttora, quando possono e riescono nelle pieghe della legislazione od in violazione ad essa, utilizzano a piene mani.

Allora certamente è importante, qui ed ora, incrementare i controlli sanitari ed igienici sulle produzioni alimentari, per rendere trasparente al consumatore il contenuto del cibo (produzione ed ingredienti, ogm e conservanti), per controllare e vietare rigorosamente l’adulterazione del cibo come l’utilizzo di sostanze tossiche (nei cibi come in tutti i prodotti). Ma questo deve valere per le imprese cinesi come per quelle campane, per quelle italiane come per quelle statunitensi (rispetto alle quali, proprio sul cibo, molte cose sarebbero da dire).

Ed è per noi importante battersi nel medio e lungo periodo per un modo di produzione che prescindendo dal profitto e dalla valorizzazione del capitale, possa produrre non merci, me beni per le persone. Un modo di produzione che noi definiamo socialista."

Articlolo scritto da: Partito Comunista dei Lavoratori