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‘La Sposa e il Diavolo’ un libro di Manuela Villa

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‘La Sposa e il Diavolo’ un libro di Manuela Villa

ROMA – Sposa per amore. Vittima per amore. Il giorno del suo matrimonio con Dev, musicista rock, Sara è convinta di avere trovato la felicità, di avere gettato le basi di una famiglia bella e solida come quella in cui è cresciuta, di essere protagonista di un sogno perfetto, magnifico. È un incubo, invece, quello che la aspetta, un inferno di violenze, sopraffazioni, di segreti inconfessabili e realtà impossibili da tollerare.
Sara subisce in silenzio, china il capo davanti a un marito da cui non riceve altro che dolore e umiliazioni continue, senza passione, senza rispetto. Ma per quanto tempo si può negare l’evidenza e calpestare la propria dignità? Si può restare comunque a occhi chiusi, quando l’orrore minaccia anche un figlio?

L’AUTRICE
Dopo il successo straordinario e costantemente rinnovato de L’obbligo del silenzio, autobio-grafia sofferta e coraggiosa pubblicata con Armando Curcio Editore nel 2007, Manuela Villa – tra le voci più emozionanti della scena musicale italiana – torna oggi ad appassionare i lettori con una tragica storia di violenza sulle donne.

LETTURA
Indossavo un abito bianco, lungo, regale, e con mio padre camminavamo lentamente verso l’altare della chiesa che io stessa avevo scelto per convolare a nozze.
Stavo per raggiungere l’uomo con il quale avrei voluto trascorrere tutta la vita all’insegna dell’amore e della famiglia, Dev.
Anche se ci conoscevamo da pochi mesi, Dev e io avevamo deciso di unirci subito in matrimonio per coronare il nostro giovane grande amore. L’unico problema era metterci d’accordo sul “come ci sposiamo?”, “dove?”, “chi invitiamo?”. Io desideravo uno sposalizio da celebrare in chiesa al cospetto di Dio in pompa magna, con tanti invitati e un ricevimento sontuoso, mentre Dev voleva semplicemente andare al comune, davanti al sindaco, senza tanto clamore. Riteneva del tutto inutile un rito sfarzoso con tante formalità. Per amore, quindi, avevo accettato un compromesso: cerimonia in chiesa in abito bianco sì, ma senza invitati, senza festa. Solo noi.
Lo amavo, e non fu difficile convincermi a seguirlo.

Vedendomi entrare in chiesa mi venne incontro, bello come non l’avevo mai visto. Vestito di tutto punto, elegantissimo, mi prese lieve la mano.
Persino i nostri genitori, che si erano incontrati e presentati per la prima volta proprio quel giorno, ci guardavano e non facevano altro che dire che era bello vederci insieme, e che avremmo formato sicuramente una coppia stupenda e duratura, sebbene fossimo da poco insieme. Dicevano che tra noi c’era una certa somiglianza, qualcosa in comune. Io ne ero lusingata, e anche Dev mostrava di esserlo.
Iniziò dunque la cerimonia. Mentre il prete concludeva la sua omelia cercai lo sguardo di Dev per perdermi nei suoi occhi come avevo sempre fatto da quando l’avevo conosciuto, e lo vidi distratto e infastidito dal flash del fotografo che io stessa avevo chiamato strappandogli un’ulteriore concessione: volevo che restasse almeno un ricordo di quella giornata così speciale, ma la mia iniziativa non l’aveva convinto fino in fondo.

D’un tratto quello che stava per diventare mio marito mi sussurrò all’orecchio di attendere qualche istante e di stare tranquilla perché sarebbe ritornato subito. Quindi, mentre il sacerdote lasciava il pulpito per riprendere la liturgia, si allontanò dall’altare dirigendosi a grandi passi verso il fotografo, invitandolo a uscire immediatamente sotto gli occhi increduli dei presenti, e dei miei per prima. Il fotografo, offeso, raccolse tutta l’attrezzatura e lasciò la chiesa, e Dev, come se niente fosse, tornò accanto a me rivolgendomi un sorriso poco convincente, e dicendo con voce impassibile, per nulla imbarazzato: “Ora possiamo iniziare.”

Io ero diventata di marmo. Alzai gli occhi al cielo come le statue che delimitavano la navata e un attimo dopo mi girai verso i miei genitori, che tutt’altro che rilassati cercavano, attraverso piccoli gesti, di capire da me se andava tutto bene. Feci un cenno di assenso per tranquillizzarli e continuammo a seguire la messa.
Durante tutta la cerimonia Dev non mi rivolse più lo sguardo, come fosse ipnotizzato, tanto che ebbi l’impressione che persino il sacerdote si compiacesse della straordinaria attenzione dello sposo. Al momento del fatidico sì lo pronunciò senza timore, mentre il mio tremò come una tenera foglia che senza un filo di vento, senza alcun motivo, vibra fino a staccarsi dal suo albero prima del tempo.
Ci scambiammo le fedi e promettemmo dinanzi a Dio di amarci e onorarci per tutta la vita.
Quando venimmo alla questione separazione o comunione dei beni e il sacerdote dichiarò che avremmo optato per la prima mi tornò in mente che quella scelta era stata fatta soprattutto per volontà di Dev, e mi sentii in un certo senso rassicurata: la casa era mia, e l’idea che il mio compagno di vita fosse disinteressato ai beni materiali mi fece pensare all’eterno vero amore.

Questa riflessione riuscì a rincuorarmi. La cerimonia terminò, e con la benedizione del sacerdote e neanche l’ombra di una foto ricordo aspettai un bacio senza fine che, ahimè, non arrivò mai. Ci girammo invece verso il mondo che attendeva fuori.
Improvvisamente Dev decise di non andare più al ristorante, che comunque non aveva neanche prenotato, affidando i festeggiamenti all’estro del momento: ci sarebbe stata troppa confusione, disse, e si affrettò ad avvisare tutti che saremmo andati a banchettare a casa sua.
Anche in quell’occasione rassicurai i miei genitori spiegando loro che la decisione era frutto di un capriccio di giovani sposini che si divertono a fare un matrimonio “originale”, per sentirsi unici, speciali, e mio padre e mia madre, vedendomi d’accordo, si rasserenarono. Anzi, incuriositi da questa stramberia ci seguirono contenti.

La famiglia di Dev viveva sulla cima di una montagna dalla quale, in lontananza, si riusciva a scorgere anche una lingua di mare, ma il posto non aveva niente a che fare con una località sciistica o di villeggiatura: si trattava in realtà di una cava con una vecchia miniera di carbone, abbandonata oramai da decenni.
Di pietra era la casa e tutti quelli che ci abitavano. Il nucleo familiare originario era composto da cinque figli, tre dei quali erano emigrati in Germania nei primi anni Sessanta in cerca di lavoro dopo la chiusura della miniera. Vivevano tra mille difficoltà, tanto che in tutto il periodo trascorso insieme, feste comprese, non avevano condiviso mai un sorriso, una frase ironica. Solo problemi. L’allegria non era mai entrata in quella casa di montagna come mai era entrato il sole, ma stranamente me ne scoprii attratta e affascinata. La presenza di Dev mi faceva dimenticare tutte le tappezzerie scure che rivestivano i divani e le sedie, e con gli occhi della passione trovavo persino “estremamente particolari” le lugubri composizioni di fiori secchi che riempivano vasi impolverati posizionati qua e là negli angoli del salone. Erano frutto di un hobby della sorella di Dev, ed era lei per prima a ribadire che tutte le piante si seccavano a causa delle scarse ore di luce e del suo pietoso pollice verde.

A questa donna triste come il suo passatempo avevano dato un nomignolo a mio avviso infelice, ma evidentemente in linea con la mentalità del tutto all’antica della famiglia. La chiamavano Zita, vale a dire “zitella”. Vestita invariabilmente di nero, con i capelli arruffati e resi opachi dall’incuria, la prendevano in giro perché a quarantasette anni non aveva avuto un solo ragazzo, un solo rapporto. Era, insomma, la castità in persona. Solo più in là Dev stesso mi avrebbe rivelato che aveva sempre saputo di una sua relazione, durata circa un anno, con un uomo molto più grande, sposato e con figli (ragion per cui era finita e la sorella evitava di parlarne), e che l’aveva sorpresa più di una volta con lui in macchina, lasciandosi sfuggire degli epiteti non esattamente gentili nei loro confronti. Era il solo a essere al corrente della cosa, mentre il fortunato era stato il proprietario dell’unica sala da biliardo del paese limitrofo.
Oltre a quella della famiglia di Dev nella cava c’erano altre tre case, ma in giro non si vedeva nessuno. Solo una vecchia osteria, poco lontana, raccoglieva i vecchi rimasti nel paesino, che si riempivano di buon vino tra una mano di carte e l’altra. Accanto c’era quella che era stata una scuola, e che successivamente era stata sgombrata e usata come deposito di legname per mancanza di bambini. Il silenzio era assoluto, quasi irreale.

La madre di Dev, ormai vedova da anni, condivideva quel silenzio. Aveva la carnagione sbiadita e quel giorno portava un vestito (anch’esso nero) da cerimonia che aveva indossato l’ultima volta al funerale del povero marito, e delle ciabatte imbottite che spacciava per scarponcini. Di quando in quando la sentivo sospirare, come rassegnata a un evento inesorabile. Non smise nemmeno apparecchiando la tavola e improvvisando un pranzo di nozze che, non so per quale diavoleria, mi sembrò indicibilmente perfetto come tutto il resto.
Vedendoli all’opera per la prima volta tutti insieme mi resi conto che i tre della casa, Zita, Dev e la Madre, avevano la brutta abitudine di parlottare a bocca stretta, quasi a volersi negare l’un l’altro non importa cosa, anche una piccola emozione, e che appena si accorgevano di essere stati sorpresi a farlo cambiavano fulmineamente direzione e comportamento. Glielo vidi fare tante volte e non mi piacquero per questo, ma per una sorta di quieto vivere non feci altro che ripetere a me stessa: Mi sto sbagliando, ho mal interpretato.

Iniziammo dunque a mangiare in silenzio; qualcuno ogni tanto faceva finta di tossire per rivelare la propria presenza, qualcun altro lasciava volutamente cadere la forchetta per terra per rompere l’imbarazzo.
Il tintinnare metallico fu l’unica musica che suonò per me in quel fatidico giorno, il giorno delle mie nozze.
(dal primo capitolo)