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La ‘Fine del Mondo’ al Giardino delle IDEE

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L’idea di un mondo che gira nel vortice della propria fine è pericolosamente bella.
Ma occorre fondare quella paura, cioè fornirle motivi di esistere; cioè non solo avere paura della paura, ma capire perché dovremmo averne.
Altrimenti è come leggere Nostradamus o guardare Voyager.
Si capisce bene leggendo “Pianeta terra. Perché saranno gli uomini a distruggere il mondo” il nuovo libro di Mario Tozzi, geologo e conduttore televisivo di successo.
Domenica 24 febbraio 2013 alle ore 17.00 nella consueta cornice della Sala delle Muse del Museo Nazionale d’Arte Medioevale e Moderna di Arezzo con ingresso libero e gratuito MARIO TOZZI sarà ospite del Giardino delle IDEE.

Ad introdurre e moderare l’incontro Barbara Bianconi con le domande e le sollecitazioni di Fabio Mugelli.

Per Mario Tozzi non si può non nutrire una devozione ai limiti dell’acriticità.

In “Atlandide” lo vediamo emozionarsi al cospetto di rocce basaltiche mentre si arrampica sul fianco di Strombolicchio, contemplare un niente stupefatto che lo ignora, secco, in Norvegia, disegnare magmi su vetri portatili come l’insegnante irresistibilmente simpatico che avremmo sempre voluto, guardare nell’occhio del vulcano come un personaggio di Bataille, con le guance rosse e un elemetto da minatore.

Perché se è vero che Mario Tozzi è persona affascinante e simpatica è anche vero che riesce a raccontare la scienza come pochi.

Nel suo ultimo libro si può inoltre godere dell’inaspettato lirismo della sua scrittura scientifica.

L’operazione è quella cara ai surrealisti, in particolare a Caillois, cioè di rendere diagonale la scienza, di farle bucare non solo la materia, col laser come per mezzo di tunnel dentro cui viaggia la particella di Dio, ma anche i confini tra le discipline, unendo nella stessa polifonia matematica e poesia, studio delle pietre ed estetica, teatro e mimesi naturale.

Il racconto di Pianeta terra è tutto al passato, perché è dal 2019 che il narratore, ultimo sopravvissuto di catastrofi nucleari e atmosferiche, ci parla, eletto e dannato.

Chiuso in un bunker, alimentandosi di cibi il cui DNA è irrimediabilmente alterato, ricostruisce i passi della inesorabile fine del mondo.

È emozionante e agghiacciante quando la sua memoria passa sopra eventi del nostro recente passato – terremoti, alluvioni, tsunami – sfiorandolo: sembra ci tocchi un’aura nervosa sopra la testa, come un meteorite con la coda urticante che facciamo finta di non vedere.

Quello che il narratore fa è constatare il fallimento futuro dell’azione umana già intrapresa. Guardare la Storia con l’ottica non del disincanto, ma con quello, scientifico, della necessità storica delle azioni umane e delle loro conseguenze.

Il racconto del sopravvissuto annulla ogni virtuosismo futurologico perché quello scenario è non solo verosimile, ma prevedibile, necessaria conseguenza del presente.

È un racconto spaventoso, eppure lascia un senso di immensa tenerezza per la terra.

La terra è fatta di strati – di scale se si vuole rendere omaggio alla mitologia o di vuoti se si ama Poe – ma comunque di materia eterogenea che poggia con forze e consistenze diverse su un nocciolo sconosciuto e ribollente.

Facendo dialogare la storia umana con quella naturale, e la geografia come racconto delle distanze, delle estensioni e dei rapporti tra gli spazi con l’antropologia culturale che segna i confini porosi delle pratiche e degli usi, Tozzi fa qualcosa di straordinariamente attraente.

In epigrafe a Pianeta terra ultimo atto riluce della sua cupa luminescenza una citazione da Dissipatio H. G. di Guido Morselli, inno all’estinzione e alla solitudine del sopravvissuto.

Come in una puntata di Ai confini della realtà, il mondo è una landa abbandonata e sudicia dove penzolano macabre insegne dei negozi – e sarebbero accese, se non fosse saltata la corrente del mondo – e tutto quello che un sopravvissuto può fare è raccontarci passo passo la nostra fine.