Home Nazionale Sanità: da un tattoo a un’identità, in campo gli 007 dei morti senza nome

Sanità: da un tattoo a un’identità, in campo gli 007 dei morti senza nome

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Milano, 3 ott. (AdnKronos Salute) – Una colomba tatuata che si trasforma in un nome e un cognome. Sorrisi immortalati in foto di momenti felici che rivelano un’imperfezione dentale e aprono alla speranza: quella di dare un’identità ai corpi restituiti dal mare, dopo i naufragi del 3 e dell’11 ottobre 2013 al largo di Lampedusa dove persero la vita centinaia di persone. “Ben 195 cadaveri, rimasti senza nome, sono finiti dentro un book” che racchiude una miniera di informazioni. “Dati che da soli non bastano: serve il passo successivo”, racconta all’Adnkronos Salute l’anatomopatologa Cristina Cattaneo.
Cattaneo è responsabile del Labanof (Laboratorio di antropologia e odontologia forense), struttura dell’università Statale di Milano all’avanguardia nella ricerca in campo identificativo, ed è consulente dell’Ufficio del Commissario straordinario del Governo per le persone scomparse. Ieri a Roma c’era anche lei, quando sono partiti i colloqui con un primo gruppo di persone, legate a 19 scomparsi che si sospetta abbiano trovato la morte in quel braccio di mare che li separava da una nuova vita. “Abbiamo subito ottenuto un paio di identificazioni e raccolto tante forti coincidenze che nei prossimi giorni potrebbero trasformarsi anche loro, almeno nella metà dei casi, in altre identificazioni certe”.
Vite passate ai raggi X. Un pool di esperti ha setacciato ogni dettaglio utile. A questo fine è stato firmato un protocollo d’intesa tra l’Ufficio del Commissario straordinario e la Statale di Milano. Il punto di partenza sono i numeri: secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) dal ’93 sono morte in mare 20 mila persone.
I corpi non identificati nella regione Sicilia, secondo un primo censimento dei cadaveri senza nome avviato dal 2007, erano 588 al 30 giugno 2014. Tra questi 387 si riferivano a stranieri recuperati in mare nella provincia di Agrigento, a seguito degli sbarchi di ottobre 2013. Alcuni di questi hanno trovato un’identità. Per altri è ancora tutto appeso a un filo. Quel filo che mette in collegamento “i dati ante mortem e quelli post mortem raccolti dalla Polizia Scientifica”. La parola d’ordine è: ‘matching’, incrociare le informazioni.
Ieri è stato fatto proprio questo: ai familiari delle vittime è stato chiesto di portare con sé foto (e Facebook si è rivelata una fonte importante di immagini), dati clinici, ma anche spazzolini, rasoi, lamette. “E nel caso in cui il parente è in linea diretta si fa anche il tampone per confrontare il Dna”, spiega Cattaneo. Da un lato dunque l’analisi dettagliata dei corpi, le foto scattate dalla Scientifica, una banca dati con tutti i connotati, i contrassegni, dati biologici necessari per l’identificazione, dall’altezza alle cicatrici di traumi passati o vecchi interventi, dai tatuaggi ai piercing. Dall’altro le conferme dei parenti. “Perché se non raccogli i dati dei familiari non ce la fai ad andare avanti nei casi più difficili”.
E poi c’è il forte impatto emotivo. “Ieri con noi c’erano degli psicologi ad accogliere i parenti delle vittime di Lampedusa. Ogni incontro è durato in media un’ora e mezza. Vogliono vedere le immagini dei loro cari, e immancabilmente crollano davanti alla certezza definitiva che si tratta proprio di loro. Ognuno ha alle spalle un lutto non elaborato. La psiche si rifiuta di credere fino in fondo che una persona a cui vuoi bene è morta”. I commenti sono sempre gli stessi. “I familiari pensano: ‘Ce l’aveva quasi fatta e dopo un viaggio lungo e pieno di pericoli il sogno di un futuro migliore finisce a pochi chilometri dalla meta’. E’ devastante e difficile da accettare”.
Cattaneo, insieme all’associazione Penelope che si occupa di persone scomparse, è fra le protagoniste di una lunga crociata per i cadaveri senza identità: “In Italia dai dati raccolti sono almeno un migliaio, ma è sicuramente un dato sottostimato perché non c’è ancora un censimento preciso che permette di incrociare la banca dati dei cadaveri senza identità con quella delle persone scomparse. Ci siamo resi conto che solo a Milano negli ultimi 17-18 anni ci sono passati sotto gli occhi circa 800 corpi senza nome, di cui una grossa fetta sono stati identificati, ma ne restano ad oggi una sessantina senza nome”.
“Abbiamo visto – aggiunge l’esperta – che la metà di quelli riconosciuti erano extracomunitari, e pensato che la gente che transita senza documenti nel nostro Paese può finire in questo limbo. Il problema è stato affrontato con la Croce Rossa internazionale ancora prima della tragedia di Lampedusa”. Oggi l’Italia “lascia un buon segno. Un esempio da seguire a livello europeo. Siamo avanti”, assicura Cattaneo: “Sono state messe le basi per una banca dati. Si chiama Ri.Sc (Ricerca persone scomparse), ora una realtà in fase di rodaggio. Negli altri Paesi non c’è. Invece sarebbe utile una banca dati, aperta a tutti, anche a livello europeo. E’ in quest’ottica che si deve ragionare”.
Quella del riconoscimento “è una sfida scientifica e tecnica. Una grossa fetta di morti non può essere identificata subito anche perché nel caso di migranti in fuga è difficile entrare in contatto con i familiari in linea diretta. Nel caso di Lampedusa si è trattato di una catastrofe grossa che ha avuto risonanza, ma penso – conclude l’esperta – ai morti centellinati che finiscono catalogati negli uffici di tutta Italia e le informazioni vengono perdute”.