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Norme chiare materie prime in etichetta

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Rho, 20 ott. (AdnKronos) – – Servono norme chiare, in sede europea, per poter esplicitare nell’etichetta dei prodotti alimentari la provenienza delle materie prime con cui vengono realizzati. A chiederlo è Gianpiero Calzolari, presidente di Granarolo, che oggi all’Expo di Milano ha presentato un’indagine dell’Osservatorio Permanente sulla Filiera Italiana del Latte sui “bisogni informativi dei consumatori italiani”. Il 50% degli intervistati (1.021 cittadini italiani) non conosce il significato della dicitura “Made in Italy” posta su un prodotto alimentare, ignora cioè che indica che il prodotto non è necessariamente realizzato con materie prime di provenienza nazionale.
Il 30% degli intervistati crede, erroneamente, che significhi che è stato realizzato con materie prime italiane. Così non è; tuttavia nel 96% dei casi si ritiene importante che un prodotto venga realizzato con materie prime nazionali e molti sarebbero disposti a spendere di più per averlo.
“Serve una base normativa – dice Calzolari – che ci deve venire dall’Europa, che ci deve consentire di esplicitare senza dubbi, con chiarezza, l’origine della materia prima, senza demonizzare le materie prime altrui, ma solo per consentire al consumatore di scegliere. E ci vuole anche un atteggiamento volontario da parte delle imprese: noi nei nostri prodotti scriviamo ‘100% latte italiano’. Non c’è una legge che lo certifica, lo certifichiamo noi, nel senso che con il consumatore ci impegniamo a raccontare cose vere”.
Le etichette oggi, continua il presidente di Granarolo, “sono molto orientate alla burocrazia, mentre la comunicazione è un’altra cosa. E non può essere affidata alla comunicazione commerciale, perché allora dico che sono il migliore degli altri. Poi, certo devo provarlo, ma non è questo il messaggio che dobbiamo dare al consumatore. Una riflessione sulle etichette va fatta sicuramente”.
“I consumatori – prosegue Calzolari – ci dicono che vogliono sapere con certezza da dove arriva la materia prima e che hanno bisogno di essere educati a leggere quelle etichette. Hanno bisogno anche, come in tutte le altre cose, di una comunicazione più semplice. Credo inoltre che sarebbe necessario riflettere sulla necessità di portare l’educazione alimentare nelle scuole. Siamo i primi nell’alimentare: perché non abbiamo un’educazione alimentare come materia scolastica?”.
I produttori italiani del lattiero caseario, ha spiegato Denis Pantini, direttore area agroalimentare di Nomisma, hanno la necessità strutturale di andare sui mercati esteri, poiché da tempo in Italia, Paese che pure è un importatore netto di latte, si assiste ad un andamento a forbice tra i consumi interni, che dal 2204 al 2014 sono calati dell’11%, e le esportazioni, che sono invece aumentate e che consentono così ai player nazionali di compensare, almeno in parte, le conseguenze di un mercati interno stagnante, quando non in declino.
La pur blasonata Francia esporta ‘fromages’ per circa 3 mld, a un prezzo medio di 4,5 euro al kg. L’Italia ne esporta per poco più di 2 mld, ma a un prezzo medio di 6,5 euro al kg, che sale a 8,7 euro al kg per i Dop. Il prezzo è un punto di forza, anche se non bisogna esagerare: Calzolari ha raccontato di aver visto a New York del Parmigiano in vendita a 50 dollari al chilo (“Se glielo portiamo a quel prezzo lì, continueranno a comprare il Parmesan”).
Un punto debole del nostro export, tuttavia, è il fatto che ben il 74% dei prodotti lattiero caseari destinati ai mercati esteri finisce nei Paesi Ue. Il 9% va negli Usa, appena il 5% in Asia, il 5% in Svizzera, il 2% in Giappone e così via.
E anche se i consumi di formaggi nell’Ue dovrebbero crescere del 10,5% di qui al al 2024 (9,12 mln di tonnellate i consumi nel 2014), ha spiegato Pantini, la crescita negli Usa (4,9 mln di tonnellate) è prevista nello stesso periodo al 18,8%. E in Asia, pur partendo da una base inferiore (1,4 mln di tonnellate nel 2014), la crescita attesa è del 40,8%.
Non ci sono quindi molti dubbi riguardo alla direzione che dovrebbe imboccare la nostra industria: esportare verso Usa e Asia. Tanto più che, da un’indagine condotta da Nomisma sui consumatori Usa, emerge che il 57% degli intervistati ha comprato negli ultimi 12 mesi formaggi italiani, contro il 55% che ha acquistato altri cavalli di battaglia del Made in Italy come pasta o olio di oliva.
C’è materia su cui costruire, insomma, anche se l’assessore all’Agricoltura della Regione Emilia Romagna, Simona Caselli, ha suonato la sveglia al settore: “Non capisco – ha detto -perché non possa avvenire con il formaggio quello che è successo con il vino”, dove i piccoli produttori si sono consorziati e così “quando il produttore conferisce le uve, poi gli arriva il valore della bottiglia di Lambrusco venduta in Brasile”. Invece, al produttore di Parmigiano “arriva solo quello che riesce a spuntare all’uscita dal caseificio per una forma che, intera, non vuole nessuno”. È “una questione di volontà e di evoluzione”, ha sottolineato l’assessore.
Le ha fatto eco il ministro delle Politiche Agricole Maurizio Martina, conscio del fatto che, se le grandi imprese come Granarolo hanno intrapreso la via dell’internazionalizzazione per non finire preda di player esteri, autoconfinandosi in un mercato declinante come quello italiano, le imprese più piccole fanno ancora fatica: “So che ci sono ancora margini per migliorare – ha detto – ma noi abbiamo aperto degli spazi di lavoro. Certo, si può sempre fare meglio, ma non può fare tutto la politica: adesso tocca al settore battere un colpo, perché nessun passaggio come quello che stiamo vivendo viene governato solo dalle leve della politica, in un Paese come questo, dove il ruolo delle organizzazioni di settore è cruciale”.