Home Nazionale Massimiliano Bartesaghi: “Cuore e mente di chi scatta dietro ogni foto”

Massimiliano Bartesaghi: “Cuore e mente di chi scatta dietro ogni foto”

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Roma, 12 lug. (Labitalia) – “Trovo che le innumerevoli discussioni intorno alla fotografia, esemplificate per me dalle storiche contrapposizioni pellicola-digitale, bianco&nero-colore, lasciano un po’ il tempo che trovano. Penso che la cosa fondamentale dietro a una bella fotografia sia sempre il cuore e la mente di chi scatta. L’aspetto tecnico è un di più”. Così, in un’intervista a Labitalia, il fotografo Massimiliano Bartesaghi, autore di ‘Geometrie Urbane’ che si inaugurerà ad Anzio il 29 agosto, all’interno di una delle tappe annuali del Photofestival ‘Attraverso le pieghe del tempo’ che porterà in parte allo Spoleto Festival Art, entrambe curate dell’Associazione Occhio dell’Arte.
“Per me -spiega- la fotografia è il modo personale di cercare di trasmettere agli altri il nostro modo di vedere la realtà che ci circonda, il tentativo di trasmettere agli altri le sensazioni e le emozioni che ciò che fotografiamo ci trasmette quando decidiamo di scattare. Per quanto riguarda i fotografi che ammiro faccio un non esaustivo elenco in ordine alfabetico tra contemporanei e storici: Letizia Battaglia, Gianni Berengo Gardin, Henry Cartier Bresson, Robert Capa, Robert Doisneau, Elliot Erwitt, Franco Fontana, Mario Giacomelli, Mimmo Jodice, Steve Mc Curry, James Natchwey, Sebastiao Salgado”.
“Ammiro molto -ammette- quei fotografi che riescono ad emozionare raccontando le persone, forse perché è un genere di fotografia per me inavvicinabile perché mi sentirei sempre un intruso che cerca di intromettersi nella vita altrui. Due mostre visitate a Roma in tempi abbastanza recenti mi hanno fatto conoscere il giapponese Domon Ken e l’americana Vivien Meier. Due mondi completamente diversi ma due artisti capaci di emozionare con le loro fotografie”.
“Il vantaggio di essere pervasi dal ‘sacro fuoco’ -sottolinea Massimiliano Bartesaghi- di qualsiasi forma di espressione artistica penso sia quello di avere un canale privilegiato per poter esternare e cercare di trasmettere le proprie sensazioni, le proprie emozioni, il proprio modo di vedere e vivere il mondo che ci circonda”.
“Non sempre si riesce a raggiungere questo obiettivo, ma l’importante è avere la possibilità di provare a farlo. Per quel che mi riguarda vorrei che i miei lavori riuscissero a trasmettere a chi li guarda una sensazione (estetica, interiore, ecc), che potrebbe benissimo non essere la stessa sensazione che ho provato io nel momento dello scatto, perché siamo ognuno diverso dall’altro con percezioni assolutamente diverse ed individuali”, aggiunge.
“Non sono un fotografo di professione -ammette- e quindi mi rimane difficile esprimermi sugli svantaggi che questa professione comporta. Più in generale, penso che molti appassionati di fotografia che hanno ottime doti e che realizzano fotografie di altrettanto ottima qualità abbiano difficoltà a trovare canali adeguati a far conoscere le loro opere (ma questo è un problema che riguarda qualsiasi forma di espressione artistica e non solo)”.
“Quando ho cominciato a scattare le mie prime fotografie -ricorda- i corsi di tecnica fotografica non erano sicuramente così diffusi come adesso, forse a livello amatoriale non esistevano nemmeno. E così un po’ con i suggerimenti tecnici di mio papà, un po’ prendendo come vangelo le indicazioni riportate all’interno delle scatole delle pellicole, ho cominciato a cercare le prime accoppiate tempo-diaframma che consentissero fotografie ben bilanciate (che poi dovevi aspettare di vedere la stampa per sapere se eri stato bravo, non come adesso che basta guardare nel visore per avere un’idea molto vicina al vero di come è venuta la foto)”.
“Quanto alla composizione degli scatti, mi sono sempre lasciato guidare da una sorta di istinto naturale e se i risultati sono stati validi sta chi guarda i miei lavori valutare e giudicare. Credo che l’essere stato un autodidatta mi abbia consentito di non essere stato influenzato da ‘punti di vista’ esterni soprattutto per quanto riguarda la composizione delle fotografie. Le mie fotografie sono, dunque, il risultato esclusivamente del mio modo di vedere la realtà che mi circonda, del mio modo di esserne colpito e di cercare di restituirla”, prosegue.
“Il progetto delle ‘Geometrie urbane’ -racconta- nasce per caso durante un viaggio a Berlino nel 2005. Passeggiando per una città ricca di fermenti architettonici molto diversi tra loro e alzando lo sguardo verso il cielo nei pressi di Postdamer Platz, mi colpì il contrasto tra un palazzo di vetro e uno di architettura più tradizionale”.
“Cercai allora di ‘concretizzare’ tale contrasto con una inquadratura che esulasse dai due edifici in quanto tali e si concentrasse solo sulle loro differenze strutturali e di materiali, una sorta di astrazione architettonica”, dice.
“Quella fotografia che aprirà la mostra di Anzio -avverte- è stata quindi la prima pietra del progetto che tuttavia in quel momento ancora non avevo concepito come tale. Altri due successivi viaggi, prima a New York e poi a Madrid, mi diedero l’opportunità di cercare altre inquadrature che mi consentissero di esprimere questa ricerca, all’interno della ripetitività degli schematismi architettonici, di combinazioni di linee, di forme, di accostamenti di colori”.
“Ma l’idea di organizzare questi scatti -afferma Massimiliano Bartesaghi- in un progetto organico, e di pensarne altri che continuassero a svilupparlo, si definì durante una passeggiata romana nel quartiere dell’Eur, fatta proprio con l’intenzione di trovare tra i tanti edifici presenti in quella zona qualcuno che si prestasse a dare corpo a questa mia ricerca. Da allora durante i miei viaggi cerco sempre, se ne ho l’occasione, di continuare a cercare e scattare le mie geometrie urbane”.