Home Arezzo La testimonianza di Luisa: “io infermiera colpita dal Coronavirus. Ricoverata 17 giorni in Malattie Infettive. Lontana dai miei figli, tra paura e sofferenza. Sono tornata a casa, non è ancora finita, ma ce l’ho fatta”

La testimonianza di Luisa: “io infermiera colpita dal Coronavirus. Ricoverata 17 giorni in Malattie Infettive. Lontana dai miei figli, tra paura e sofferenza. Sono tornata a casa, non è ancora finita, ma ce l’ho fatta”

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La testimonianza di Luisa: “io infermiera colpita dal Coronavirus. Ricoverata 17 giorni in Malattie Infettive. Lontana dai miei figli, tra paura e sofferenza. Sono tornata a casa, non è ancora finita, ma ce l’ho fatta”

Luisa è un’infermiera della Radioterapia del San Donato. Ma è anche una moglie, di Luca, infermiere anche lui ma nell’emergenza – urgenza. Soprattutto, però, è una mamma, di due ragazzi ancora minorenni.
E Luisa, che abita in un quartiere di Arezzo tra i più nuovi, poco distante dall’ospedale, è anche tra le ormai centinaia di persone che, anche qui da noi, sono state contagiate dal Coronavirus. Un’esperienza difficile. Dolorosa. Piena di paura, che ha deciso di raccontarci. Positivo al virus anche il marito. Lui però asintomatico è potuto restare a casa, in isolamento. Lei, invece, ha vissuto 17 giorni di ricovero in Malattie Infettive, di cui sei con il casco per la respirazione. Diciassette giorni, terminati ieri, nel giorno di Pasqua, quando è potuta tornare nella sua abitazione.
Una rinascita per Luisa. Certo, non può abbracciare i suoi figli come vorrebbe e come viene naturale ad una madre, ma almeno è insieme a loro. I suoi vicini l’hanno accolta con un grosso striscione di bentornato, con disegnati sopra un cuore e una pentola a pressione. “Mi hanno detto che in questi giorni gli era mancata la pentola a pressione che tengo sempre a bollire sul terrazzo – racconta. Loro sono stati fondamentali per noi. Hanno portato la spesa a mio marito e ai miei figli, li hanno accuditi ogni giorno, seppur dovendo lasciare tutto sul pianerottolo e potendoci parlare da lontano o per telefono. Li ringrazio, non finirò mai di farlo, senza loro non ce l’avremmo fatta. Ed ancora continuano ad assisterci. Anche la Croce Rossa ci ha contattato per supportarci, come il Comune ha messo a disposizione i suoi servizi. Ma noi abbiamo loro, ce la caviamo. Grazie comunque a tutta la rete di supporto”.

Ancora però, secondo l’ultimo tampone fatto quattro giorni fa è positiva al virus. I sintomi, comunque, sono diminuiti e il direttore del reparto di Malattie Infettive, che lei ci dice “è fatto di persone straordinarie, il dottor Danilo Tacconi, ha valutato di poterla dimettere, continuando l’isolamento a casa. “Dovrò assumere per altre due settimane il cortisone, scalando la dose, e la calciparina. Ma il peggio è passato, ho avuto paura. Sono un po’ debole e faccio più fatica, ma non è niente in confronto a quello che ho vissuto”.

Ed ecco il suo racconto dei diciassette giorni di ricovero: “sono stata isolata in una stanza con un vetro che si affaccia su un corridoio. Da lì vedevo i miei colleghi ed i medici, che riconoscevo solo dal nome scritto a pennarello nella schiena sopra alla tuta protettiva. Mi bussavano al vetro, anche il dottor Tacconi, e mi chiedevano continuamente come stavo. Lo stesso con gli altri pazienti. Sempre dal vetro vedevano il monitor dei parametri. Ogni volta che entravano nella mia stanza, come nelle altre, magari per somministrare la terapia, si cambiavano completamente e all’uscita si rispogliavano e cambiavano di nuovo tutti i dispositivi di protezione usati. Questo accadeva ad ogni visita di ciascun paziente”.

Ma quando è stato il momento più difficile? “Per i primi giorni ho indossato la mascherina dell’ossigeno, in quella maniera potevo parlare al telefono con mio marito e i miei figli. Poi per sei giorni ho indossato il casco per la respirazione. Fa molto rumore e non si possono avere contatti neppure telefonici. Ho potuto parlare con i miei ragazzi solo per messaggio. Però ho tenuto duro, non volevo arrivare a dover essere intubata. Una signora, nella stanza vicino alla mia, soffrendo di claustrofobia, non è riuscita a tenere il casco e quindi è stata trasferita in terapia intensiva e per farla respirare hanno dovuto usare un metodo più invasivo. Stare soli, in questi momenti è dura. Ma continuo a ripetermi che sono stata fortunata, che è andata bene. Credevo fosse una semplice influenza, magari con sintomi più forti. Ma non è così. Sono stata molto male”.
Come sono andate le cose? Come vi siete accorti del contagio? “Mio marito è stato sottoposto al tampone per sicurezza, seppure non presentasse sintomi, in quanto tra il personale del 118 si erano verificati casi positivi. Ed anche lui, però, è risultato positivo. Io e i miei figli siamo stati messi subito in quarantena. E mi ci sarei messa lo stesso. Dopo qualche giorno ho chiamato il mio medico di famiglia, incominciavo a sentirmi raffreddata. Mi ha fatto fare subito il tampone. Ed ero positiva anche io. Poi la tosse è aumentata, avevo febbre. Ma soprattutto non sentivo più sapori in bocca. Questo è stato il sintomo più evidente. Viste le mie condizioni è stato deciso il ricovero. Avevo i polmoni messi male, menomale è bastato il casco per la respirazione.
Mio marito ha avuto solo un giorno con un po’ di mal di gambe. Niente altro. Mio figlio piccolo assolutamente nulla. Quello più grande un tampone positivo, ma il successivo negativo. Anche lui sta bene”.

Ma c’era e c’è anche altro che preoccupa Luisa: “quando ho saputo di essere positiva mi si è ghiacciato il sangue. Lavoro in Radioterapia. Ero già a casa prima di saperlo e non avevo sintomi quando ancora lavoravo. Ma la paura per i miei colleghi e i miei pazienti è stata tanta. Sono a contatto con pazienti oncologici, immunodepressi. Ho avuto tanta paura per loro. Fortunatamente sono risultati tutti negativi, pazienti e personale del reparto”.

E sulla sua professione aggiunge: “faccio parte del personale sanitario, come mio marito. Avevamo messo in conto di poter essere a rischio, ma è il nostro lavoro è essere in prima fila, al servizio degli altri. Certo ho avuto paura, ma fortunatamente ho superato il momento più brutto, la fase più acuta della malattia. Adesso aspetto di guarire completamente, non so quanto tempo ci vorrà. Però mi ripeto continuamente che il peggio è passato. Penso alle mie colleghe, che sono lì, che le ho lasciate sole e magari avrebbero avuto bisogno di due mani in più. Per ora il dottor Tacconi mi ha detto che devo riposare. E me ne sto in isolamento assieme alla mia famiglia”.
Luisa conclude: “stiamo a casa, state a casa. E’ un virus ancora poco conosciuto, non ci sono terapie specifiche, non c’è vaccino. L’unico modo è evitare contatti e quindi contagi. Io non so ancora esattamente come posso averlo preso. L’importante è evitare che accada. Per me sono stati 17 giorni di calvario, ma mi sono salvata. C’è anche chi non ce l’ha fatta. Prendiamo coscienza ancor di più di quanto possa essere una patologia grave. E vogliamoci bene, ma soprattutto vogliamo bene agli altri. Come a chi lotta per noi”.