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Lettera aperta di Loreno Martini alla Sinistra Arcobaleno

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AREZZO – Lettera aperta di Loreno Martini, segretario PdCI sezione Arezzo, alla Sinistra Arcobaleno: "Cari amici e compagni, è con queste mie riflessioni che sono ad annunciarvi che all’assemblea dell’8 maggio non sarò presente. Non lo sarò io come non lo sarà – ufficialmente – la sezione di Arezzo del mio partito. Coloro che vorranno prendervi parte lo faranno a titolo personale e, comunque, al di fuori di riconosciute deleghe di rappresentanza.

Questa scelta non vuol diminuire né l’affetto né la stima verso i tanti amici e compagni con cui ho vissuto la recente campagna elettorale. Quella esperienza rimane viva in ognuno di noi. Lo sforzo che in maniera congiunta abbiamo prodotto per garantire al Paese una rappresentanza Parlamentare della sinistra è stato e rimarrà un riferimento importante per il futuro.

Ma il punto di partenza dell’oggi è comunque un altro. E’ la consapevole presa d’atto che quanto la “sinistra arcobaleno” ha prodotto e proposto non ha trovato, nel Paese, né comprensione né condivisione. Tutto ciò è, in questi giorni, oggetto di riflessioni e di legittimi e auspicabili “tentativi di ripartenza”.

Una ripartenza necessaria che però, per essere tale, necessita (a parer mio) non solo di buona volontà ma, anche, di quel sentimento capace di muovere tanti uomini e tante donne verso un obiettivo – più o meno prossimo – ; un sentimento in grado di produrre entusiasmo, voglia, speranza.
Un sentimento che può suscitare protagonismo a condizione che assuma e sappia racchiudere le motivazioni ed i caratteri forti e di una “ideologia”: un termine vilipeso, definito sorpassato e nostalgico.
Un termine a cui, in tanti hanno attribuito significati funesti e, molti altri ne hanno accettato passivamente quelle attribuzioni di significato.
Un qualsiasi vocabolario della lingua italiana definisce il termine “ideologia” nel modo seguente: “complesso di principi alla base di un indirizzo di pensiero che ne rappresenta i valori”.

Ed è qui, su questo argomento, che si evidenziano le differenze di pensiero tra me e una parte della “sinistra arcobaleno” ad Arezzo (forse non solo ad Arezzo).

Non fu casuale che, all’indomani del risultato elettorale e delle prime e contraddittorie analisi del voto, aprì un blog all’interno del sito aretino de la sinistra arcobaleno dal titolo “rifondiamo la sinistra” nel quale posi, quasi fosse un gioco, l’invito a indicare quali pensieri, elementi distintivi, valori potevano essere ricondotti a “sinistra” e quali no.
Le poche risposte ricevute (inerenti al tema) hanno posto al centro – quindi elevato a valore – la questione della “partecipazione”. Argomento ripreso ed esaltato anche nell’articolo successivamente pubblicato da Marco Tulli. Quindi, tale elemento – inequivocabilmente di “condizione” – viene elevato a “valore” primario e centrale dell’appartenenza alla sinistra.

Be! – forse non comprendo bene – oppure c’è un po’ di confusione?. Come non considerare che già nel ventennio (forse già prima?) vi erano a piazza Venezia folle acclamanti o che, in tempi recenti, ingenti masse hanno acclamato dando spessore, ruolo e sostanza a Berlusconi. Erano e sono state forme di partecipazione imponenti. Ma il loro contenuto non era certo di sinistra…, semmai l’esatto contrario.

Ciò premesso, e al fine di produrre un minimo di chiarezza circa i miei intendimenti, voglio ribadire che non mi sento un “tradizionalista” (abbarbicato ai ricordi – proprio perché mi ritengo consapevole della irriproducibilità della storia e, soprattutto, delle profonde trasformazioni sociali e culturali in corso), neppure un “conservatore” (la difesa di diritti e conquiste non è conservatorismo come, del resto, la loro soppressione non è riformismo ma restaurazione), men che meno un “nostalgico” di astratte simbologie (i “marchi” sono importanti ma non certo elevabili a valori).

Ma non mi sento neppure uno a cui è sufficiente enunciare la parola “sinistra” per farlo sentire appagato di un percorso; tanto più se incerto, indefinito, fumoso. Un percorso, quello vissuto nella sinistra arcobaleno e che si vorrebbe riproporre, rigettato pure da coloro a cui ci rivolgiamo e che aspiriamo a rappresentare: il mondo del lavoro.

La delusione di quel mondo trova motivi nella constatazione che i suoi riferimenti classici da tempo si occupano di altro rispetto ai suoi nuovi e profondi bisogni. Un mondo del lavoro che non riesce a comprendere la portata di una battaglia che si consuma al suo interno. I suoi ceti più deboli combattono “una guerra tra poveri” alimentata da coloro che in nome della “competitività” e del “mercato” realizzano plusvalenze sempre più ampie sulle spalle e sulla vita di tale conflitto. Quel mondo del lavoro, stordito ed attonito, ha cessato di credere in una sinistra incapace di reagire e di redimere la contesa.

Io, ma come me penso anche ad altri, ho bisogno di vedere il percorso dell’impegno politico e civile costellato di coerenze e, soprattutto, di valori. Valori imprescindibili che, in quanto tali, costituiscono il discrimine della stessa appartenenza ad un gruppo, ad un movimento, ad un partito. Valori non negoziabili, non emendabili, irrinunciabili.

Ai primi posti – a mio parere – per un movimento che voglia richiamarsi a sinistra c’è quello del superamento dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo; valore che può apparire antico ma che si ripropone in tutta la sua attualità: basti pensare alle varie forme di precariato, all’uso dei lavoratori extracomutitari (spesso utilizzati per vanificare diritti e contratti di lavoro), a salari inadeguati a garantire livelli di vita dignitosi.

Sempre ai primi posti c’è il problema del lavoro – non come condizione ma come diritto – consapevoli che solo dall’autosufficienza economica può scaturire quella autonomia e dignità che rende eguali le persone: nessuno più subalterno, bisognoso, chino: ma uomini eguali che affrontano la vita con dignità e serenità.

Pure ai primi posti vi è il problema della qualità della vita. Una “vita” che – per essere considerata degna di essere vissuta – dovrà poter contare nella piena affermazione dei diritti fondamentali quali il diritto al lavoro, alla salute, all’istruzione, alla cultura, al tempo libero, ad un ambiente salubre, alla solidarietà sociale, alla sussidarietà. Una vita piena e libera – forte del rispetto reciproco – non soffocata né da pregiudizi né da tabù. Una vita dove l’etica diviene valore e non condizione; dove le libertà individuali terminano solo laddove iniziano quelle collettive; dove non vi sono custodi di “verità mai provate” , dove il “peccato” non diviene “reato” (se questo non lede il diritto di altri).

Ai primi posti vi è pure quello del diritto a battersi per una società il cui modello di sviluppo politico, economico e sociale sia più giusto. Un modello che non sia destinato – per sua natura – a produrre disuguaglianze e ingiustizie, ma, al contrario, sia capace di assicurare benessere, serenità e giustizia a tutti gli uomini e le donne. Un sistema che sappia anteporre il bene collettivo ai privilegi, alle angherie e alle sopraffazioni dei pochi che in nome dei loro interessi speculano sull’esistenza di tanta povera gente.

Lavorare per affermare questi princìpi significa pensare ad una sinistra nella quale i valori divengono contenuti, i progetti speranze, le battaglie occasione di emancipazione.
Senza ciò la sinistra è destinata ad apparire vuota, priva di anima, senza futuro.

Affermare che può esistere una sinistra senza quei valori, una sinistra indifferenziata, significa ridurla ad aggregazione marginale e salottiera. Quella stessa funzione a cui, a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, assolsero coloro che venivano definiti “fricchettoni”: esponenti di una “borghesia annoiata in cerca di notorietà”. Figure estranee al mondo del lavoro e del progresso che, senza cognizioni, avanzavano la pretesa di rappresentali. In quegli anni il mondo del lavoro rigettò quei “movimenti post-sessantottini” che, adottando le rimembranze a momento centrale e distintivo della loro azione, finirono per impersonarne il reflusso.

Anche in quegli anni – quella parte della sinistra – appariva indistinta: a tal punto, in alcuni casi, da non saper distinguere il bene dal male, le battaglie di emancipazione da quelle di retroguardia, il valore fondamentale della vita (non quello cattolico che demanda a vite successive il diritto alla felicità – bensì quello del diritto di ogni persona a poter vivere la propria vita in maniera degna, una vita unica, irripetibile, senza continuità e – per questo – ancora più importante e inviolabile) da chi, ammiccava al terrorismo come ultimo estremo tentativo di affermare una rappresentanza non voluta; un disperato tentativo di recuperare quel ruolo che la storia gli stava negando.

Quindi né la storia, né la ragione indicano un possibile futuro per una sinistra indistinta.
Certo, affermare determinati valori, farlo con coerenza e convinzione, non evidenzia forme di neutralità “ideologica” o “intellettuale”: di ciò dobbiamo avere piena convinzione. Come, del resto, non è pensabile che una sinistra priva di valori possa aspirare a divenire punto di riferimento anche perché, tra l’altro, le verrebbe a mancare quella “sintesi leninista del che fare?”, della direzione verso la quale orientare il timone, del “perché” e del “per cosa”.

E’ quindi, sulla base di queste mie profonde convinzione, che ritengo necessario lavorare per anteporre la questione dell’identità a quella dell’unità. In politica non ci si aggrega in base a teoriche sommatorie (gli effetti li abbiamo sotto gli occhi), ma in base alla comune volontà di centrare obbiettivi condivisi; Diviene pertanto fondamentale che ognuno faccia chiarezza rispetto alla propria identità, ai propri propositi, al tipo si società a cui si orienta, alle forze sociali a cui aspira collegarsi e, consapevolmente, rappresentare.

Sfuggire a questa realtà significa fare demagogia: Illudere noi stessi prima ancora della gente da cui vogliamo trarre forza e sostegno. Significa continuare ad autocelebrarsi e, in funzione di questo rito, continuare a nascondersi, proteggendosi dietro alle facili semplificazioni sommatorie pensando che forme di unità di facciata possano sopperire alla carenza di idee, di legittimazione e di riconoscimento.

E’ per queste ragioni, sommariamente enunciate, che ho deciso di non aderire alla assemblea dell’8 di Maggio. Una occasione che reputo (con tutto il rispetto e la modestia possibile senza la pretesa di avere la verità in tasca né tantomeno quella di ergermi a giudice il vostro pensiero) in grado di appagare esclusivamente bisogni individuali di autocelebrazione ma destinata a quella marginalità a cui l’elettorato ha confinato tale esperienza.

Comunque, amici e compagni, ritengo che su temi specifici potremo qualificare battaglie politiche comuni. Il Paese ha bisogno di ritrovare momenti di lotta a sostegno dei diritti e delle condizioni di vita dei più deboli. Se poi ci sarà voglia di confrontarsi anche su quei temi che ho elencato come “valori”, potrete contare sulla mia piena disponibilità."

Loreno Martini